Sabato 21 marzo, presso la sala antistante la chiesa di San Carlo (Isola del Liri), si è svolta la cena ebraica presieduta da don Dante Gemmiti, che sarà inoltre riproposta per la serata di domenica 29 marzo presso la chiesa di Sant’Eleuterio ad Arce. I convitati erano oltre cento, l’intera sala era al buio e all’apertura una donna ha acceso le candele. Nelle case delle famiglie giudee spettava, infatti, alla madre accendere le luci dei candelabri e così dare vita e allegria agli ambienti in cui si celebravano le solennità. Possiamo supporre che nell’ultima cena sia stata Maria a farlo. La Chiesa Cattolica, conservando questa tradizione, incomincia la Veglia Pasquale con il “Rito della Luce”, simbolo della venuta del Cristo, luce del mondo. Anche l’uso delle candele sull’altare trae origine da questa antica tradizione ebraica. Per comprendere meglio l’intero rituale della cena, Rino Troiani, che dal 2004 insieme ai Giovani di AC della Parrocchia di San Bartolomeo organizza questa attività, diventata ormai una tradizione ed un appuntamento fisso in diocesi, nel discorso di benvenuto ha accennato qualche riferimento storico al fine di chiarire le origini e il senso stesso di questa pratica antica. Tentiamo di ripercorrere alcuni punti.
“Pesach zeman charutenu” -“Pasqua tempo della nostra liberazione”. Così i nostri fratelli ebrei chiamano la festa centrale del loro ciclo liturgico, una festa nata a causa di una fuga. Il libro dell’Esodo (capitoli 12,13 e 14) descrive bene i momenti che precedono e seguono l’episodio dell’uscita, una fuga che Dio trasforma in vittoria. La”notte”della traversata del mar Rosso verso la terra Promessa costituisce l’evento attraverso cui il Signore forma il popolo d’Israele. E proprio durante questo pellegrinaggio verso Canaan riceveranno il dono per eccellenza la Torah (il Pentateuco), sigillo del patto stipulato con il Signore. Quindi se è vero che in questa notte nasce l’identità del popolo, è altrettanto vero che, solo accogliendo la Torah, Israele diviene completamente libero per poter servire il suo Dio nella terra ricevuta in dono.
Ma dove e quando nasce Pesach? La radice “psch” probabilmente esprime l’idea del saltellare del gregge che indica l’origine pastorizia della celebrazione. Forse all’inizio coincideva con un’antica festa di primavera, in cui i pastori esprimevano il loro ringraziamento per la nascita dei nuovi agnelli del gregge. Poi nella storicizzazione biblica il “passare oltre” il “saltare” sono stati riferiti all’azione del Signore che risparmia le case degli ebrei mentre colpisce i primogeniti d’Egitto (Es 12,33). Ma c’è un altro rito agricolo che viene a coincidere con quello pastorizio:”la festa del pane non lievitato”(mazzot). Gli azzimi, assieme alle erbe amare, ricordavano a Israele sia il pane dell’oppressione mangiato per anni in Egitto, sia la liberazione tanto repentina da non consentire di far lievitare il pane.
Nei secoli successivi la celebrazione della Pasqua si concentrò attorno alla narrazione, al sacrificio dell’agnello e alla consumazione dei pani azzimi e delle erbe amare almeno fino alla distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 d.C.), ad opera dei Romani. Questo evento segna uno spartiacque nelle vicende del popolo ebraico e anche il rito della Pasqua testimonia il cambiamento avvenuto. Non essendo più possibile salire a Gerusalemme per offrire sacrifici, la celebrazione si fonderà sulle benedizioni, sul racconto e sulla consumazione del seder: la cena pasquale.
Oggi il culmine, anche emotivo, dei riti pasquali è costituito dalla celebrazione del seder (lett. “ordine”), cioè la cena che si svolge la prima sera di Pasqua e, nella diaspora, anche la seconda. Si tratta di una pratica costituita da una serie di gesti ben precisi accompagnati dalla lettura dell’Haggada’ shel Pesach (“Narrazione della Pasqua”). Eccoci dunque alla nostra cena ebraica.
Durante la cena, originariamente,venivano bevute quattro coppe di vino e proprio sulla seconda veniva recitato l’Haggada’, il racconto. Il seder con i suoi cibi e le sue narrazioni rappresenta il tangibile prolungamento, nel tempo, del racconto delle proprie origini. Questo narrare costituisce un processo d’identità culturale che corrisponde al comandamento di Dio stesso:”In quel giorno racconterai a tuo figlio: “E’ a causa di quanto ha fatto a me il Signore, quando sono uscito dall’Egitto”. E’ il racconto dell’Haggada’ ad offrire la chiave di lettura di tutto il rito: il far memoria della liberazione passata non può avvenire senza il ricordo della sofferenza trascorsa (pane dell’afflizione cf Dt 16,3), senza impegnarsi nel presente in una prassi di accoglienza (ogni persona che ha bisogno venga…) senza aprirsi nella speranza a una prossima liberazione.
La cena ebraica ha avuto dunque inizio con la benedizione. Ogni alimento servito nella Pasqua giudaica era infatti benedetto prima di essere consumato. Il capofamiglia ringraziava Dio per ognuno dei suoi doni. Allo stesso modo oggi il pane e il vino vengono benedetti dal celebrante durante l’offertorio della messa, e quindi il celebrante ringrazia Dio per essi. Viene quindi servito a tutti i presenti il primo calice, calice della santificazione. Il vino era servito quattro volte durante la cena pasquale, attinto da un’unica anfora per tutti i commensali in segno di unità. Durante l’Ultima Cena, Gesù servi’ questo primo calice di vino non ancora consacrato dicendo:”Prendete questo calice e distribuitelo tra voi, poiché vi dico “non berrò più del frutto della vite, finché non venga il Regno di Dio”(Luca 22,17-18). La consacrazione sarebbe avvenuta più tardi, dopo il pasto, alla distribuzione del terzo calice di vino, il calice della benedizione. Tutti i presenti hanno bevuto quindi il primo calice, appoggiati sul gomito destro come uomini liberi ( gli schiavi mangiavano accovacciati per terra o seduti su sgabelli). A questo punto vengono compiuti due atti con valore penitenziale: il lavacro delle mani e la consumazione delle erbe amare ( rucola intinta nel pinzimonio). Dopodiché il celebrante prende un pane azzimo, lo spezza e ne avvolge una parte nella tovaglia. La parte nascosta verrà mangiata alla fine della cena. Serve a rappresentare il Messia nascosto, la cui venuta è ardentemente attesa. Viene servito il secondo calice, calice della redenzione e quindi pronunciata l’Haggadah, narrazione dell’uscita dall’Egitto. Come ci sono quattro coppe, nella cena ci sono quattro figli che simboleggiano i diversi modi di relazionarsi con la religione. Il più giovane tra i commensali pone la domanda fondamentale. Il numero quattro ha un valore simbolico. Indica il “mondo fisico/l’uomo” il nostro mondo nella sua interezza: in pratica rappresenta tutta l’umanità. Nella cena tradizionale i quattro figli rappresentano quattro tipologie di uomini e pongono quattro domande di senso. Si canta insieme una lode ed è in questo momento che i servitori entrano solennemente portando le pietanze tipiche della cena ebraica, ciascuna portatrice di un significato simbolico: agnello, pane azzimo, verdure, haroset.
Al termine della cena, Rino, prendendo il pane azzimo che era stato nascosto sotto la tovaglia, lo divideva in piccoli pezzi per distribuirlo ai commensali. Nell’ultima cena fu probabilmente a questo punto che Gesù prese il pane, pronuncio’ la benedizione e lo distribuì ai discepoli dicendo “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me” (Luca 22,10). Don Dante pronuncia la benedizione e viene servito e bevuto il terzo calice, calice della benedizione, ricordo del sangue di Gesù.
Al termine della cena si riempiono per l’ultima volta i calici. E’ il quarto calice rituale, calice dell’accettazione, Dio ci accetta come suo popolo e il rimando va, in questo caso, all’orto degli Ulivi, momento in cui il Cristo accetta di bere il suo calice di dolore affinché fossimo redenti.
Dopo la benedizione finale pronunciata da don Dante la cena si è conclusa tra i bellissimi canti di lode e ringraziamento e con gli auguri di una Santa Pasqua a tutta la comunità.
– Angela Taglialatela
– Foto di Piercarlo Gugliotta