Chi è il catholicus?

Cattolico, cattolicesimo, cattolicità, Chiesa cattolica, cristiano cattolico… Sono alcune delle ormai consolidate declinazioni d’uso dell’originario aggettivo latino catholicus, a sua volta modellato sul greco καθολικόϛ, da tutti ormai acquisite come espressioni ordinarie per riferirsi alla Chiesa cristiana di Roma che ha nel Papa il suo capo riconosciuto, in quanto vicario di Cristo e successore di Pietro. Quale idea di fondo si nasconde sotto un termine così diffuso che quasi ne smarriamo la valenza autentica? Come per molte altre parole del Cristianesimo, le radici affondano in espressioni linguistiche appartenenti al greco, passate poi al latino tramite frequenti calchi lessicali e trasformazioni semantiche, spesso a partire da un uso non ancora cristiano, ma legato alle abitudini espressive di un popolo dalla fertile mentalità filosofica quali erano i Greci. L’aggettivo καθολικόϛ, infatti, il cui significato è “generale, universale”, si incontra spesso dopo Aristotele e la sua straordinaria speculazione sulla conoscenza, ma resta relegato a un uso più raro e alquanto accademico; più comune, invece, già da prima, la locuzione avverbiale καθ’ ὅλου (kath’ hòlu), che vuol dire “in generale, universalmente”.

L’aggettivo che ne deriva penetra nel latino posteriore ad Augusto come termine straniero e mantiene il suo valore originario, adottato da scrittori pagani come Plinio il Vecchio e Quintiliano; quest’ultimo in particolare scrive nella sua Institutio oratoria (2,13,14): mihi semper moris fuit quam minime alligare me ad praecepta quae καθολικά vocitant, id est, ut dicamus quo modo possumus, universalia vel perpetualia (“è stata sempre mia abitudine legarmi il meno possibile alle regole che sono soliti chiamare katholikà, cioè, per dirla come possiamo, universali o generali”), riferendosi alla retorica e alle sue regole da molti ritenute stringenti e vincolanti. Il valore profano del termine si incontra spesso anche presso i primi scrittori cristiani, come Giustino e Clemente tra i Greci, Tertulliano tra i Latini.

Nella valenza, invece, propriamente cristiana, la parola si riveste inizialmente di accezioni varie, fino ad acquisire un senso tecnico destinato ad assumere notevole importanza teologica: viene infatti definitivamente applicato in primo luogo alla Chiesa e agli insegnamenti da essa impartiti, in secondo luogo ai membri che la compongono. Come è avvenuto un così stabile consolidamento di senso a partire da una situazione, tutto sommato, estranea ai contenuti dottrinali cristiani?

Partiamo dal nesso per noi più usuale: Chiesa cattolica. Nel suo significato primitivo ed originale, tale attribuzione vuole esprimere l’idea che la Chiesa, intesa come comunità di tutti gli uomini (quindi universale) presieduta da Cristo, si contrappone come concetto alle comunità locali che di essa sono un’espressione particolare e che rappresentano nella figura del vescovo il ruolo centrale di Cristo. Punto di riferimento per tale interpretazione è un passo in greco di Ignazio di Antiochia nella Lettera agli Smirnesi, in cui il vescovo martire mette in guardia la comunità di Smirne contro eventuali tentazioni eversive e afferma l’importanza della funzione del vescovo come centro garante dell’unità dei fedeli nella propria comunità, proprio come Cristo è garanzia dell’unità della Chiesa nel mondo (ὅπου ἂν φανῇ ὁ ἐπίσκοπος, ἐκεῖ τὸ πλῆθος ἤτω, ὥσπερ ὅπου ἂν ῇ Ἰησοῦς Χριστός, ἐκεῖ ἡ καθολικὴ ἐκκλησία – “dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è Gesù Cristo,   ivi è la Chiesa cattolica”: 8,2). E’ dunque chiara la distinzione tra la “Chiesa nella sua dimensione universale” e le chiese locali nella loro manifestazione individuale: tale valore semantico corrisponde in pieno a quello originario e profano, che sappiamo usuale tra i filosofi greci. Ma presso costoro era diffusa anche un’altra accezione del termine, secondo la quale ciò che è universale è anche, necessariamente, uno: l’aggettivo arrivava così a contenere, implicitamente, il significato assai preciso di “unico, solo” per il fatto di rappresentare l’unità dell’universale. Questa duplice accezione, trasferita nel mondo cristiano, porta all’immediata conseguenza che la Chiesa, in quanto universale e presieduta da Cristo, è anche necessariamente “una”.

A partire da questo passaggio logico, l’aggettivo si è evoluto in senso dogmatico ed è servito a designare la Chiesa “una” come “vera Chiesa” distinta dalle sette eretiche sempre più numerose. A tale ulteriore evoluzione semantica ha portato un duplice ordine di motivazioni: non solo il contrasto geografico tra la Chiesa cattolica, presente in ogni angolo del mondo cristiano, e i gruppi eretici, presenti in località particolari, ma soprattutto l’idea che solo quella chiesa, continuamente presente ovunque, potesse rappresentare l’unità dei cristiani, fondamento essenziale per una comunità il cui capo è Cristo. Incontriamo forse per la prima volta questo senso dogmatico di “cattolico” nel Martyrium Policarpi, la narrazione del martirio di san Policarpo, morto nel 155, vescovo di quella città di Smirne a cui Ignazio di Antiochia aveva rivolto le sue esortazioni all’unità. In un passo del capitolo 16 si parla della “chiesa cattolica di Smirne”, dove si intende non una chiesa di estensione geografica universale, ma la cristianità ortodossa di Smirne, che si definisce cattolica per distinguersi dai gruppi che, all’interno della città, si dichiaravano cristiani, ma erano molto probabilmente marcioniti o valentiniani.

Dunque, nella seconda metà del II secolo, sia in Oriente che in Occidente, καθολικόϛ / catholicus designa la chiesa unica e vera di Cristo in opposizione alle sue deviazioni e sottolinea l’universalità di questa chiesa a garanzia della sua autenticità. A partire dal IV secolo i movimenti eretici ricevono grande impulso, è naturale che gli scrittori ortodossi accentuino l’importanza del concetto di universalità dell’unica chiesa vera facendo ricorso ad un uso sempre più frequente del vocabolo per argomentare con maggior forza contro i dissidenti. Campioni di eloquenza e di zelo sono stati in Occidente Ottato di Milevi, tenacemente impegnato nella lotta contro il donatismo, e Agostino, che in particolare scrive: Ipsa est enim ecclesia catholica unde καθολική graece appellatur, quod per totum orbem terrarum diffunditur (“essa è infatti la chiesa cattolica, appunto in greco chiamata catholiké perché è diffusa in tutto il mondo” – epist.52,1).

Insieme a loro, altri grandi pensatori e scrittori hanno adottato il termine in chiara contrapposizione ai gruppi scismatici ed eretici, utilizzandolo sia come aggettivo, sia come sostantivo maschile designante “colui che segue la vera fede”. Bastino per tutti Ambrogio (catholica et apostolica ecclesia fid.I,18,120), Girolamo (catholicos viros adv.Rufin.2,17), Sedulio (catholicam…concordiam op.pasch.5,16) per quanto concerne l’uso aggettivale; Ilario di Poitiers (catholicorum veritasin Matth.26,5 “la verità dei cattolici”) e Avito (catholicis Arrianisque certantibus epist.31,17 “mentre cattolici e ariani lottavano”) per l’uso sostantivato. La storia, attraversando i millenni, lo ha condotto indenne fino ad oggi, in un momento in cui la Chiesa, ancora viva in una società compenetrata di relativismo e di laicismo, non smette di proclamarsi “cattolica”, cioè “universale”, “una” e “vera”.

Cadia Savona

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