Qualche mese fa, volendo dare un ragguaglio panoramico di come, tra il Seicento e il Novecento, direttamente o indirettamente, il Basso Lazio sia stato luogo di spettacoli teatrali, oppure terra di origine di autori drammatici, fornivamo alcune spigolature, riservandoci di approfondire con altre ricerche quanto comunicato. Infatti, alcune “storie” accennate in quell’excursus sono state poi oggetto di autonoma trattazione.
Ora, diamo conto dell’esito di ulteriori acquisizioni documentarie, nella speranza di poterne dare ulteriori e più circostanziate notizie nei prossimi mesi.
Cominciamo col dire che diversi studi hanno messo in luce ed analizzato che, durante i secoli della romanità, nella società del Latium vetus e di quello adiectum vi erano numerose occasioni di luci scaenici e di giochi nel circo. Infatti, sono state rinvenute numerosissime testimonianze epigrafiche attestanti sia l’organizzazione e lo svolgimento di spettacoli, sia il successo e la popolarità di attori in tutto il territorio laziale.
Ad Alatri, in occasione di due visite pontificie, nel corso dell’Ottocento, furono organizzati solenni festeggiamenti pubblici. Ne resta traccia in due opuscoli stampati rispettivamente nel 1843 (per la visita del 4 maggio di papa Gregorio XVI) e nel 1850 (per la visita di Pio IX).
Com’era d’uso al tempo, Alatri ha conservato memoria della cerimonia di monacazione di una sua concittadina. Infatti, in occasione della vestizione dell’abito benedettino nel venerabile “Monistero della SS. Annunziata della Città di Alatri”, da parte di Giovannina Gorirossi (che, prendendo i voti, assunse il nome di Suor Maria Flavia), fu fatto stampare un libricino (siamo nel 1847), in cui furono raccolti poesie e dialoghi dedicati al vescovo cittadino Adriano Giampedi.
Più recente, è l’Annuario (relativo agli anni scolastici 1928-29 e 1929-30) del Regio Liceo Ginnasio “Conti Gentile”, nel quale sono ricordate anche manifestazioni performative che in quel liceo vennero date dagli alunni.
Durante il XVI secolo, ad Alvito, nel palazzo ducale fu edificato un teatro di corte, nel quale venivano dati spettacoli musicali, coreografici e drammatici per il diletto della corte e dei cortigiani. Inoltre, nel 1708, in occasione delle nozze del duca Francesco Saverio Ignazio Gallio con la principessa di Acaja e Montemiletto (che vennero celebrate a Napoli), il celebre musicista Handel compose appositamente una pastorale dal titolo Acis und Galatea, nel cui frontespizio compare appunto il richiamo al paese di Alvito.
Il teatro di corte, nel corso dell’Ottocento, veniva utilizzato da attori amatoriali per recite più popolati in occasione del carnevale o di altre festività, finché nel 1839 esso venne messo all’asta e rilevato da un gruppo di cittadini. Poi, nel corso del Novecento, esso fu sede di una serie di messinscena di drammi sacri, tra i quali S. Valerio soldato martire (circa 1920), e S. Rita da Cascia (1953).
Dell’antico teatro romano di Aquino, si legge una breve e velatamente polemica descrizione che l’abate Domenico Romanelli fa nel suo Viaggio da Napoli a Monte-Casino ed alla celebre cascata d’acqua dell’Isola di Sora (edito a Napoli nel 1819): «Dallo stesso lato in corta distanza […] alzavasi il teatro, di cui restano tuttora considerabili avanzi. La fabbricazione è di opera reticolata la più benintesa. Io vi ravvisai le vestigia del semicerchio, dove eran riposte le gradazioni, ed alcuni pezzi de’ corridoj sotterranei, pe’ quali si ascendeva a’ vomitorj. Tutto il campo è seminato di sassi, e di rottami di mura, senzacché sia venuto ad alcuno il desiderio di scavarlo, dove non solo si troverebbe tutta la sua intera pianta, ma anche delle antichità preziose» (p. 142).
Poche pagine dopo, con lo stesso piglio critico, il prelato viaggiatore annota della sua visita alle «ruine dell’anfiteatro, oggi ridotto ad orti, e ad un abituro di animali bruti. Non ostante quest’uso pravo, che si è fatto di un’opera così rispettabile, pure ha giovato moltissimo alla durata de’ suoi nobili avanzi. Infatti, in quelle camere si vedono tuttavia bellissimi pezzi di fabbricazione reticolata, e siti de’ corridoj e de’ passaggi, e qualche residuo di marmi. Nell’orto contiguo si distingue tuttora la pianta ovale dell’arena con rotte mura intorno, dove i giostratori si azzuffavano. Qui sono state rinvenute, come udii dalla mia guida, delle molte antichità preziose» (p. 144).
Analogamente ad altre cittadine della zona, anche in Arpino v’era un monastero benedettino, quello di S. Andrea Apostolo. L’8 maggio 1856 prese i voti, vestendo appunto l’abito delle figlie di S. Benedetto, la signorina Letizia Cossa, ed in quella occasione furono date delle pubbliche letture di versi, in una sorta di recital poetico ante litteram, che si possono leggere in un libricino stampato (e attualmente conservato) a Napoli quello stesso anno.
Di pochi anni posteriore, e cioè del 1853, è invece un’altra pubblicazione, resoconto del saggio offerto al pubblico, nell’agosto di quell’anno, dagli alunni di grammatica media e suprema del Real Collegio Tulliano, retto dai Padri della Compagnia di Gesù.
Nel teatro comunale di Atina, ricavato dalla sala di giustizia dei Cantelmi, era stata data nel 1655 l’opera di Pietro Antonio Bologna, La Cilinda, che avevamo già ricordato nel nostro precedente articolo. Quella sala fu oggetto di un primo restauro nel 1786, durante un periodo in cui sono registrate alcune rappresentazioni di melodrammi composti dall’atinate Giovanni Sabatini (stimato anche dal più famoso Metastasio).
Nell’ottobre del 1895 andava in scena il dramma Marco di Galilea sotto Domiziano scritto da Salvatore Concialini e pubblicato qualche anno più tardi per interessamento di Pietro Vassalli a Caserta (1902). Il dramma era dedicato alla figura del martire, che la tradizione vuole essere il fondatore e primo vescovo della diocesi di Atina, elevato alla dignità porporale da San Pietro in persona. È interessante notare come l’autore non dovette trascurare un’attenta ricostruzione storica dell’Atina del tempo, indicandola come una delle città più antiche dell’Italia preromana, nella quale si adoravano divinità quali Giano e Saturno, il cui culto era precedente a quello di Giove e degli altri dei pagani.
A parte l’opera della Filodrammatica cittadina, attiva almeno fino al 1939 (l’ultima opera data sul palcoscenico di Atina fu la tragedia Borghese e Sparadozzi), il teatro fu oggetto di numerose esibizioni anche di compagnie di altre parti d’Italia: anche Eduardo Scarpetta vi recitò. Poi, fu nuovamente restaurato nel 1912, per interessamento di Giuseppe Visocchi, che fece eseguire lavori di abbellimento e ristrutturazione.
Benché attualmente fuori dai confini geografici della provincia di Frosinone, ma legata territorialmente alla diocesi di Sora, vale la pena citare l’attività culturale che era viva in Balsorano. Infatti, originario della piccola cittadina marsicana era Alessandro Villa, autore di una tragedia in cinque atti, La morte di Oreste, stampata a Napoli nel 1847. Nell’argomento premesso ai versi, l’autore rivendica alcune novità di contenuto, introdotte per non sembrare troppo pedissequo rispetto alle celeberrime tragedie di Eschilo.
Il già ricordato abate Romanelli, nel suo Viaggio, racconta anche del teatro e dell’anfiteatro romani di Cassino. Del teatro, egli dice che «vi resta tutto il giro del semicercho di circa 150 palmi di diametro, co’ segni delle gradazioni, delle camere e de’ corridoj laterali […]. La parte della scena è totalmente distrutta, e l’orchestra è ridotta a terreno seminatorio» (p. 39).
L’anfiteatro fu innalzato per opera di Ummidia Quadratilla, come attesta un’iscrizione del I sec. d. C. (rinvenuta nel 1757). Costei dovette essere una matrona particolarmente munifica, tanto da occuparsi del restauro del teatro, al quale allude un’altra iscrizione ivi rinvenuta.
Cassino e il suo monastero furono, come abbiamo avuto modo di dire approfonditamente in altri articoli apparsi su questo sito, il centro di diffusione e conservazione della cultura nell’alto medioevo. Tra l’altro, oltre al celebre dramma liturgico Passione di Montecassino, e al giullaresco Ritmo cassinese, sono conservate alcune redazioni del Quem quaeritis, che è il primitivo esempio di scambio dialogico, dal quale sarebbe poi derivata la lunga stagione della teatralità liturgica medievale.
Nel Saggio di novelline, canti ed usanze popolari in Ciociaria (1891), Giovanni Targioni Tozzetti racconta, tra le altre cose, della cosiddetta “Giostra della bufala” di Ceccano, che si svolgeva agli inizi di luglio, sottolineando che: «È da tempo antico che a Ceccano si fa la giostra della bufala. Non si preparano steccati, né palchi, né posti speciali per assistere alla festa, né si addomestica l’animale, né si adorna con fiocchi o con nastri». Si trattava di far catturare un bufalo ai cosiddetti “caposardi” (cioè i portatori di corda), chiudendolo in una stalla improvvisata e facendolo aizzare e infastidire, in una sorta di incruenta corrida.
Particolare è la cosiddetta sagra delle “cantamesse” che si tiene a Ceprano il 15 e 16 agosto, tradizione che ebbe inizio in epoche remote (qualcuno addirittura lo fa risalire al primitivo oppido di Fregellae). La festa, di cui lo storico locale Roberto Jacovacci aveva fatto una descrizione piuttosto dettagliata, consisteva in sfilate muliebri, con donne che recavano pani in onore di San Rocco, e canti a quello dedicati.
A Cervaro, nel corso della metà dell’Ottocento dovette essere molto attiva la banda musicale, dal momento che abbiamo potuto rintracciare un’intera composizione che il monaco cassinese Placido Abela scrisse per essa. Si tratta di un pezzo di armonia risalente all’agosto del 1859
A Filettino, molto antico è il culto legato alla processione del 14 agosto, alla sera del quale viene portata un’immagine del Salvatore insieme con la statua della Madonna Assunta. Si tratta di un rito, che discende direttamente dai festeggiamenti augustei, che si pratica tutt’oggi con varie manifestazioni spettacolari, coreografiche e musicali.
Tra il Seicento e il Settecento, la vita culturale della città di Frosinone fu vivacizzata dall’attività di personaggi appartenenti all’Arcadia. Tra essi, molto importante fu Giovan Battista Grappelli (noto con il nome arcade di Melanto Arateo), il quale fu autore di numerosissimi libretti di oratori e melodrammi. Tra questi è necessario segnalare almeno L’esiglio di S. Silverio papa, e martire, pubblicato a stampa nel 1705. Si tratta di un oratorio a quattro voci, la cui musica fu composta dal maestro Girolamo Gavalotti, e incentrato sulla figura di papa Silverio, che di Frosinone è compatrono.
Altra figura di spicco dell’Arcadia frusinate fu il sacerdote Antonio Batta (alias Eufenio Euritidio), autore di un poemetto intitolato Capitoli giocosi (1768), nel quale racconta l’origine e l’antichità della città.
Nel corso dell’Ottocento, anche nel capoluogo sono testimoniati recital poetici. In particolare ci sono le tracce di due occasioni performative. La prima, legata al nome del papa Pio IX, venuto in città nel maggio del 1863, in onore del quale fu appunto tenuta un’accademia poetica e recitativa, nonché di inni cantati; la seconda, risalente al settembre di quello stesso anno, in occasione della distribuzione dei premi nel ginnasio comunale della cittadina.
Infine, nel già ricordato suo Saggio di novelline, il Targioni Tozzetti descrive in maniera molto dettagliata la festa carnevalesca della “Radeca” di Frosinone sul cui valore spettacolare non v’è alcun dubbio. La vividezza dei particolari – l’autore partecipò personalmente ad una festa di carnevale nel capoluogo ciociaro – restituisce intatta l’atmosfera di sfrenata gioia, a volte anche un po’ ruvida, che caratterizza i festeggiamenti carnevaleschi.
Il convento dei cappuccini a Monte San Giovanni Campano è anche ai nostri giorni sede di alcune sacre rappresentazioni (dedicate alla festa in onore di San Francesco, alla Passione, e alla messinscena del presepe vivente), portate alla ribalta per lo più dai ragazzi iscritti alla Gioventù francescana.
Tuttavia, la tradizione motigiana data fin dalla prima metà del 1600. Esiste infatti un documento d’archivio nel quale sono registrati i fastosi festeggiamenti in occasione del transito della statua della Madonna del Suffragio nella città ciociara nel 1632. Frate Modesto da Maenza, che all’epoca era il guardiano del convento, scrisse la cronaca di quell’episodio, non mancando di sottolineare che fu anche recitata una rappresentazione della morte e resurrezione di Lazzaro, della quale egli stesso era l’autore.
Più o meno negli stessi anni, fu attivo il musicista Giovan Tomaso Cimello, poliedrica personalità di artista rinascimentale, apprezzatissimo maestro anche a Napoli, e autore non saltanto di un trattato teorico di musica, ma anche di madrigali, ballate e canzoni.
Riguardo a Paliano, oltre alle opere ricordate nella precedente comunicazione, vogliamo ricordare un altro dramma per musica, Il silenzio di Arpocrate, scritto da Nicola Minato e rappresentato in Roma nel 1686 nel teatro fatto costruire dal Gran Contestabile Colonna. Il dramma venne dedicato a Laurentia de la Cerda Colonna, all’epoca principessa di Paliano.
Nella Picinisco della prima metà del Novecento, grazie all’istituzione dell’oratorio dell’Immacolata, vennero rappresentate alcune opere, tra cui La tentazione dell’uomo (1937), per opera dell’abate Severino Venturini (che, poi, era stato il primo fautore della ristrutturazione della chiesa parrocchiale e della realizzazione del salone-teatro).
Anche le suore del Preziosissimo Sangue non vollero essere da meno, portando in scena, la vita di Sant’Agnese e di Santa Prudeziana, scritte dal suor Lucia Gugliemi, che dell’istituto religioso faceva parte.
Di Pofi avevamo ricordato un’opera drammatica del canonico Orazio Silvestri. Altri due pofani di indubbio valore intellettuale furono i cugini Gaetano e Libero Tizzone. Nel corso del XVI secolo essi furono figure fondamentali per l’editoria di testi in lingua volgare, pubblicando versioni emendate (addirittura per alcune lavorando sugli autografi) di Giovanni Boccaccio.
Se Libero, continuando l’opera del cugino più anziano, diede alle stampe una Grammatica italiana, fondando la stessa proprio sui celeberrimi esempi dei grandi poeti del Duecento e Trecento, Gaetano fu autore di una commedia, la Germusia, purtroppo perduta. Ne abbiamo notizia dalla biografia di Francesco De’ Nobili, attore divenuto celebre nel corso del XVI secolo con il nome d’arte di Cherea. Questi, che furoreggiò nella prima metà del Cinquecento, recitò il 27 febbraio 1525 a Murano, a ca’ Molin, la commedia di “Tizone neapolitano” (che qualche storico ritiene appunto essere la perduta Germusia) “cum intermedii di poesie et soni”.
Non lontana dall’attuale provincia di Frosinone, ma protagonista della vita culturale del Basso Lazio, fu la città di Priverno (all’epoca Piperno). Nel 1738, Giacomo Borelli, che era maestro e lettore di filosofia e teologia morale della scuola del Collegio dei Padri della Dottrina Cristiana di Roma, organizzò un’accademia di belle lettere presso la chiesa di S. Nicola. Il recital, tenuto dagli scolari di quella scuola, fu dedicato a papa Clemente XII, in occasione delle festività per la nascita ed epifania di nostro Signore.
Pietro Gabrielli, patrizio romano, e principe di Prossedi, Roccasecca e Pisterzo, dovette essere, ai suoi tempi, un assiduo frequentatore dei teatri di Roma, e in particolare del teatro di Tor di Nona. Infatti, l’architetto Felice Giorgi, che di quel teatro fu l’ideatore e il costruttore, nel descrivere la propria opera in un libretto apparso a Roma nel 1795, dedicò il lavoro proprio al principe di Roccasecca, «uno dei primi acquirenti dei Palchi […] capo di simili compadroni», del quale ricorda che «per i lumi non ordinarj che avete nell’architettura […] vi compiaceste di approvare, e sostenere il disegno, che io mi feci un dovere di presentarvi prima di por mano alla fabrica».
La prima metà del Novecento vede una fervida attività teatrale anche a San Donato Val Comino, soprattutto in ambito sacro, grazie all’opera intellettuale del parroco don Cesare Gallucci, patrocinatore di rappresentazioni, la più memorabile delle quali fu una Vita di Gesù, andata in scena nel 1943 nonostante le difficoltà del conflitto mondiale allora in corso.
La popolazione di San Vittore, che com’è noto, prende il nome dal santo martire vissuto nella Milano del III-IV secolo, proprio ad un dramma incentrato sugli episodi della vita del soldato martirizzato tributò un grande successo di pubblico nel 1903. Il testo del dramma, progettato fin dagli ultimi anni dell’Ottocento, fu scritto in versi dal sacerdote don Giuseppe Spera, che insegnava a Montecassino.
Per quel che concerne Sora, è stato possibile rintracciare altre opere drammatiche, dedicate a nobildonne in qualche modo legate alla famiglia Buoncompagni. Per esempio, risale al 1718 il dramma per musica Il Massimo Puppieno, dedicato a Maria Giulia Buoncompagni Ottoboni, duchessa di Fiano. Invece, è del 1730 L’Elenia, dedicato a Teresa Buoncompagni Barberini, principessa di Palestrina: questo dramma, che ripercorre le mitiche vicende di Teseo e Arianna, si segnala per essere opera di una donna, Luisa Bergalli, cosa piuttosto insolita nel panorama dell’epoca.
Risale alla metà del Settecento (benché il libretto relativo non rechi alcuna data), il resoconto di un saggio letterario, che fu dato in pubblico per tre giorni dagli scolari delle classi prima e seconda del collegio dei gesuiti di Sora. Il periodo è deducibile dal fatto che la triplice performance pubblica fu dedicata al vescovo Antonio Correale (che della città fu vescovo tra il 1748 e il 1764). Questa “tre giorni” di recite propose al pubblico nella prima giornata opere in prosa (per lo più dissertazioni che trattavano il «miglior modo di comporre latinamente negli stili oratorio popolare, oratorio accademico, istorico, epistolare»); nella seconda giornata opere poetiche (con declamazioni da Virgilio, Orazio, Catullo, Tibullo e Ovidio); nella terza un saggio di composizione, inframmezzato a recite di componimenti poetici e di retorica.
Importante, è l’intenso iter burocratico che fu seguito dal comune di Sora nella seconda metà dell’Ottocento per la realizzazione di un teatro comunale nei locali del vecchio ospedale (che sorgeva nei pressi dell’odierno parco S. Chiara). Il progetto fu ideato e realizzato dall’ingegner Vincenzo Valente, che fu padre del famoso Antonio, architetto e scenografo che ha firmato le scene di tanti successi teatrali e cinematografici, oltre ad importanti opere pubbliche.
Per concludere, per quel che riguarda Veroli, di particolare interesse sono due frammenti, oggi custoditi uno presso la biblioteca del Monastero di Farfa (nei pressi di Fara Sabina) e l’altro presso la biblioteca del Castello del Buonconsiglio di Trento, provenienti entrambi da uno stesso graduale risalente all’XI secolo. Questo graduale fu redatto in scrittura beneventana, proprio a Veroli, e appartenne ad un non meglio identificato Dom Palmieri. Sia nel foglio di Farfa che in quello trentino è contenuto un Exultet, che conserva peculiarità rituali relative allo svolgimento della Veglia pasquale (di grande fascino drammatico). Il frammento di Farfa-Trento documenta in modo singolare una fase del progressivo processo di soppressione del rito beneventano in favore di quello romano.
Vincenzo Ruggiero Perrino