L’evoluzione delle forme teatrali, che si erano sviluppate nel corso dei secoli tra il X e il XIII, proseguì consolidando quanto si era andato delineando in ambito religioso (il dramma liturgico nelle sue varie incarnazioni), nelle vicende dei giullari (la cui spettacolarità verrà assorbita nelle operazioni teatrali di più ampio consenso sociale), e nell’ambiente degli intellettuali (la commedia elegiaca).
Se prima del XIV sec., fatta eccezione per pochissimi esempi, il dramma liturgico veniva espresso in latino, iniziò gradualmente ad affermarsi un modello di dramma sacro in volgare. Tuttavia, esso conobbe diverse modalità di realizzazione. In Italia, il maggiore impulso venne dal movimento dei Disciplinati, che contribuì allo sviluppo della lauda drammatica, la quale era derivata direttamente dai drammi liturgici della Passione, è una rappresentazione, piuttosto essenziale e statica, basata sul gesto e sul canto di un testo devoto in versi. La lauda si evolverà poi nella sacra rappresentazione fiorentina.
Nel resto dell’Europa, il dramma in volgare prese le mosse dall’istituzione della festa del Corpus Christi, che venne ufficializzata nel 1311 durante il Concilio di Vienna, e che si celebrava attraverso una grandiosa processione coinvolgente tutto il complesso della comunità civile, dalle sue massime autorità secolari e religiose al popolo minuto. Ben presto il programma celebrativo della giornata si arricchì di uno spettacolo all’aperto, il cui messaggio celebrava il sacrificio di Cristo per salvare l’umanità, svolgendone la storia dalla creazione del mondo fino al Giudizio universale. Questo tipo di rappresentazioni furono chiamate “misteri” (in Inghilterra mystery plays, in Spagna autos, in Francia passions, in Germania Geistspiele). Particolarmente elaborati erano i misteri ciclici incentrati sulla Passione, che venivano allestiti su scene mobili (i pageants), che sfilavano per le strade della città. Se i mystery plays erano per lo più basati sul racconto evangelico (o più generalmente biblico), i miracle plays, che talvolta vengono con quelli confusi, in realtà avevano la peculiarità di essere drammi basati sostanzialmente su episodi legati alla vita dei santi. Infine, i morality plays erano invece completamente svincolati dal racconto religioso (biblico o agiografico) ed erano di impostazione allegorica con personaggi umani e personificazioni di vizi e virtù.
Il percorso fin qui seguito fu sorretto da un preciso progetto artistico di rifondazione del gusto e della visione, che ebbe il suo culmine nel Rinascimento. Ma la trasformazione culturale del Rinascimento non sarebbe stata possibile se, nel corso del Quattrocento, non ci fosse stata l’intensa e appassionata campagna di riscoperta dei codici perduti o dimenticati. È uno degli aspetti caratterizzanti, forse il più appariscente, della nuova stagione culturale dell’Umanesimo, impegnata nella piena riabilitazione della classicità e dei suoi valori etici e civili.
Sintetizzando, si può dire che, durante il Quattrocento, sono compresenti e possono convivere:
a) cerimonie performative religiose, che possono essere insieme spettacolo processionale e drammaturgia recitata, complesso meccanismo scenico e istituzione pedagogica all’interno delle confraternite;
b) un recupero e un confronto sempre più attivi con la cultura teatrale dell’antichità (ritrovamento e restituzione dei testi di Plauto, rifondazione di un’idea civile del teatro e, come vedremo attraverso Vitruvio, del problema dell’architettura teatrale e dello spazio scenico);
c) le farse, come spettacolo “popolare” (ad esempio quelle in dialetto astigiano di Giorgio Aliene, 1460 ca.) e come spettacolo di corte (ad esempio quelle di Jacopo Sannazaro, 1456-1530);
d) le tragedie e le commedie umanistiche (anche di argomento contemporaneo);
e) i cortei processionali civili e religiosi;
f) le giostre, le armeggerie, le danze;
g) i diversi tipi di “intrattenitori” (come Niccolo Campani, detto Strascino, 1478-1523, autore e attore), e gli altri “comici artigiani”, che testimoniano la diretta discendenza dallo spettacolo giullaresco dei secoli immediatamente precendenti, e che si segnalano in qualità di autori di spettacoli e libri popolari.
La rifondazione del teatro germoglia dai semi gettati dagli umanisti, e, a parte il rinnovato interesse per la produzione drammatica di Plauto, Terenzio (per il quale importante fu il commento di Donato), e Seneca, poggia sostanzialmente su tre pilastri: lo studio della Poetica di Aristotele (il cui studio fornì le coordinate entro cui si produrrà la nascente drammaturgia), l’Onomasticon di Polluce (che, pur giunto in forma di compendio, offrì agli umanisti prezione nozioni sulla scena, l’attrezzatura tecnica, la macchineria e le maschere del teatro greco), e il De Architectura di Vitruvio (su i cui precetti si iniziò la costruzione di nuovi edifici teatrali).
Giovanni Sulpizio, detto “il Verulano”, fu una figura chiave di questo processo, sia per aver riportato alla luce il trattato vitruviano, che, pur non essendo caduto completamente nell’oblio, era scarsamente noto, sia per aver riportato sulla scena, secondo i modi antichi, una tragedia senechiana.
Di Giovanni Sulpizio è ignoto l’anno di nascita, benché con buona approssimazione si può circoscrivere al periodo tra il 1430 e il 1440, perchè, tra le poesie da lui dette “giovanili” ve n’è una al vescovo di Veroli, Angelo de’ Caccialupi, il quale assunse tale carica nel 1457. Intorno al 1472, dopo aver insegnato nella natale Veroli, si recò a Perugia, chiamatovi dal proconsole della Campania, dove sicuramente si trattenne almeno fino al 1475, anno in cui fece dono di una copia della sua Grammatica a Giovanni Ugolini Monte Ubbiano. Poi, da Perugia passò ad Urbino, dove rimase ammirato alla vista di quella reggia dei Montefeltre, e dove potè assistere ad una caccia del duca, che egli poi celebrò in versi. Tra il 1473 e il 1476 furono stampate, proprio a Perugia, alcune sue opere fondamentali, come la Grammatica, la Prosodia e il Carme Giovanile, che ottennero da subito ampio e duraturo successo, com’è testimoniato dalle numerose ristampe susseguitesi nel tempo, copie delle quali sono conservate in varie biblioteche italiane ed europee. In seguito, si trasferì a Roma, anche se è verosimile ritenere che avesse fatto ritorno, almeno per brevi soggiorni, a Veroli. Sappiamo che il padre di Giovanni Sulpizio aveva ottenuto la Giudicatura di Capua, dal che si può ritenere che egli vi abbia soggiornato per brevi periodi, intorno all’anno 1477.
Quelli tra il 1475 e il 1478, sono anni in cui diventa insegnante di grammatica presso lo Studium Urbis di Roma, dove entrò in contatto con l’Accademia Romana di Pomponio Leto. Proprio a Roma la fama del nostro umanista si consolidò, e nell’ambiente culturale Sulpizio acquistò grande considerazione non solo come maestro, ma anche come emendatore e commentatore di testi. Infatti, al periodo romano appartengono i commenti ai classici: il De aquaeductu Urbis di Frontino, stampato a Roma nel 1484; le opere di Vegezio, di Eliano e Modestillo, pubblicate nel 1487; il Liber Medicinalis di Quinto Sereno Sammonico, dato alle stampe nel 1488; le Institutiones di Quintiliano, in collaborazione con il Valla e il Leto, edite a Venezia nel 1494; la Pharsalia di Lucano nella stampa di Lione, nel 1519; i Paradoxa di Cicerone conservati nell’Abbazia di Montecassino; il commento a Virgilio; il commento di Lucano, che è preceduto da una breve biografia dell’autore.
L’ultima opera che Sulpizio scrisse e pubblicò è il Iudicium Dei supremum de vivi set mortuis, stampato a Roma nel 1506. È presumibile che Sulpizio non dovette vivere molto a lungo, dopo aver dato alle stampe la sua ultima fatica. Tuttavia, alcune recenti acquisizioni archivistiche, confermano che egli fosse ancora in vita nel 1508, e aveva conservato la cittadinanza romana, benché probabilmente fosse ritornato a Veroli, in zona Castello.
Abbiamo detto che dobbiamo a Sulpizio la riscoperta e la pubblicazione del trattato di Vitruvio, che, con la probabile collaborazione di altri umanisti e con la protezione del cardinale Raffaele Riario, pubblicò intorno al 1486. Sulpizio concepì la sua edizione come un lavoro da completare, lasciando ampi spazi nei margini del libro per correzioni e disegni, invitando «ogni lettore nelle cui mani questi libri capitino di aiutarci a fare la versione più fedele possibile di questo autore e la più completa in ogni parte».
Alla sua edizione, Sulpizio premette una lettera dedicatoria al cardinale Raffaele Riario, leggendo la quale si coglie il fervore del tempo intorno alla riscoperta, non solo letteraria e teorica, ma anche sul versante performativo, dei classici. Non a caso l’editio princeps venne data alle stampe nei mesi immediatamente successivi alle realizzazioni sceniche in seno all’Accademia: va da sé che l’aspetto performativo e quello teorico-filologico sono in rapporto di perfetta osmosi.
Giovanni Sulpizio scrive che, nell’emendare e pubblicare Vitruvio, ha posto ogni possibile cura, studio, zelo e lavoro, e si augura che il Riario, «con speranza certa, […] edificherà palazzi principeschi, ville, templi, portici, fortezze, e regge, ma prima teatri». Questo solo dunque resta da fare al cardinale; costruire, secondo l’insegnamento di Vitruvio, un luogo in cui la gioventù, a lui devotissima, si eserciti nell’imitazione degli antichi nel recitare poemi e rappresentare favole nei giorni di festa in onore degli dèi, ed educhi il popolo e lo diverta con onesti spettacoli.
Nella lettera il centro di interesse è il teatro; e nell’indicare il fervore ricostruttivo di Sisto IV, le nuove chiese, i palazzi, le vie, la biblioteca, il nuovo Studio, si precisa che manca il teatro. Si può ricostruirne uno diroccato o erigerne uno nuovo, ma «Theatro est opus». All’edizione di Vitruvio si lega quindi sostanzialmente l’idea che non si tratta di un semplice lavoro storico e filologico, ma che questo testo abbia una dimensione operativa nel presente. Il che conferma che l’interesse di Sulpizio è di natura assolutamente pratica.
Il teatro lo si chiede a Raffaele Riario, dal momento che aveva protetto i pomponiani che recitavano la commedia, restituendo per la prima volta «picturatae scoenae faciem»; e perché aveva patrocinato la tragedia che lo stesso Sulpizio aveva allestito. Purtroppo, la lettera si chiude senza dirci nulla delle soluzioni adottate. Imitazione del teatro antico, scena dipinta, la scena versatile e quella duttile, restauro di un teatro antico o costruzione di uno nuovo all’antica, e testi latini e recitazione e musica, palco e luogo degli spettatori: le utopie progettuali dei pomponiani danno indicazioni sul formarsi di un’idea del teatro nella città, ma non necessariamente sulla loro prassi.
La collaborazione tra Giovanni Sulpizio e Pomponio Leto non si limitò alla pubblicazione del trattato, ma si estese anche alla rappresentazione di opere teatrali dell’antichità. Infatti, mentre il Leto promosse rappresentazioni di opere plautine, Sulpizio curò la messinscena di una tragedia di Seneca, l’Hippolytus (titolo della tragedia che oggi è nota come Phedra). È lui stesso che nella citata lettera al Riario, ci informa che il cardinale per primo ha adornato in modo bellissimo un palco eretto in mezzo alla piazza, alto cinque piedi, per la tragedia che noi per primi in questo secolo (infatti già da molti secoli Roma non ne vedeva recitare) abbiamo insegnato alla gioventù e a recitare e a cantare per infiammarla […]. E dopo che fu recitata nella mole di Adriano alla presenza del divo Innocenzo, poi di nuovo tra i tuoi penati come in mezzo alla cavea del circo, con tutto il consesso coperto di velari, avendo ammesso il popolo e moltissimi spettatori del tuo grado, l’hai accolta con onore. Tu anche per primo hai mostrato al nostro secolo l’aspetto della scena dipinta allorché i Pomponiani recitavano la commedia.
Dalla lettera dedicatoria al Riario, apprendiamo che l’Hippolytus fu allestita all’aperto, forse davanti la chiesa di S. Lorenzo di Damaso. Un secondo allestimento avvenne a Castel S. Angelo alla presenza di Innocenzo VIII; infine, una terza replica, forse quella più riuscita (o per lo meno più rispondente alle idee estetiche del “regista”), fu data nel cortile del palazzo Riario. In occasione della recita della tragedia in Castel S. Angelo, Sulpizio compose un Prologo, nel quale dichiarava la novità costituita dalla rappresentazione della tragedia, ne sottolineava l’intento educativo e morale e chiedeva al pubblico un ascolto silenzioso.
Interprete del ruolo principale fu il sedicenne Tommaso Inghirami, che poi fu successore di Pomponio Leto nell’Accademia Romana, la cui prova d’attore fu tale da soprannominarlo Fedra. Anzi, si racconta che mentre si recitava la tragedia in casa del Riario, essendo per caso rovinato un ponte dietro la scena, Tommaso improvvisò in latino versi fino a che il danno fu riparato.
Al testo di Seneca furono premessi un Argomentum e un Prologus, scritti da Sulpizio e verosimilmente da lui stesso declamati al pubblico, prima che la rappresentazione vera e propria avesse inizio. In questi due componimenti si ribadisce che la rappresentazione è una cosa nuova e “nuovi” sono dichiarati anche gli attori che richiamano «theatrales iocos et fabulas» non più usati. Sulpizio si rivolge al divo Innocenzo che è presente e al numeroso “popolo dei Quiriti”. Ed anche nel prologo, si insiste sulla qualità pedagogica della rappresentazione, dicendo che gli spettatori ne usciranno migliori.
La rappresentazione era dotata di una picturata scenae facies, scena dipinta che si rifaceva alla scenae frons classica. Per alcuni, questa, non sarebbe stata altro che un muro di fondo coperto di stoffe e dipinto sommariamente; per altri, la scena dei pomponiani sarebbe consistita invece in una prospettiva di città o di campagna. In realtà, è più probabile che la scena dipinta alla quale Sulpizio fa riferimento, prodotto delle esercitazioni archeologiche dell’ambiente accademico, si ispirasse anch’essa alla scenae frons antica con l’inserimento di dipinti nelle riquadrature degli ordini architettonici. Il che avverrà anche nel teatro provvisorio costruito per le feste del 1513 sul Campidoglio.
Tiriamo le somme: se l’Umanesimo trecentesco aveva cominciato un’operazione di recupero dell’antichità, durante il Quattrocento quelle premesse si realizzano pienamente attraverso una capillare operazione antiquaria. Sulpizio emenda e commenta una serie di opere della latinità, la più importante delle quali è il De Architectura di Vitruvio. La riscoperta di questo trattato, nel Quattrocento, è motivo di riflessione sul teatro da un punto di vista teorico, ma anche performativo. Le due dimensioni in Sulpizio sono l’una il riflesso dell’altra. Infatti, la riproposizione scenica dell’Ippolito di Seneca mostra tutta la dedizione del Verolano ai problemi estetici della scena. Tuttavia, mostra anche tutti i limiti di un approccio ancora allo stato embrionale alla questione teatrale. Non a caso, il pieno recupero di un’idea di teatro (sia in senso architettonico che scenico), si afferma solo qualche tempo dopo, in pieno Rinascimento. Allora, Vitruvio, con Polluce e Aristotele, diventerà un perno insostituibile di quel modello di “teatro all’italiana”, che resterà praticamente inalterato fino agli inizi del Novecento.
Resta ferma, comunque, la straordinaria importanza dell’attività di Giovanni Sulpizio Verolano nella rifondazione del teatro. Possiamo, infatti, dire che fu grazie alla sua opera che il teatro avrebbe cominciato la riflessione sul suo statuto di arte della scena.
Vincenzo Ruggiero Perrino