Nel corso del Seicento, lo spettacolo raggiunse nella vita culturale e sociale un’importanza e una diffusione quali forse si potranno riscontrare solo in età contemporanea. Giostre, tornei, sfilate, trionfi, processioni, melodrammi, tragedie, commedie regolari e Commedia dell’Arte, allestimenti festivi e via dicendo, sembrano in certi momenti polarizzare l’interesse di intere città. Tanto che, nell’età barocca, lo spettacolo si impone per grandiosità d’apparato e frequenza di iniziative. Ancora ritroviamo: la festa del principe (i giochi pirotecnici); la festa civica (il carnevale); la festa della Chiesa (gli apparati sacri e il teatro gesuitico); la festa aristocratica (le Accademie e gli impianti provvisori per i tornei). La società cortigiana si proietta e si rispecchia nel suo teatro, ma allo stesso tempo fa della propria vita un gioco e uno spettacolo in cui tutto è appariscenza.
In Europa, lo spettacolo, da mero accadimento occasionale, diventa un fatto organizzato e professionale. In Francia, già dall’inizio del XVI secolo sono attive le prime compagnie di attori girovaghi, le quali, a differenza di quelle italiane, non si sviluppano spontaneamente, ma nascono nell’ambito di associazioni ricreative. L’origine in ambiente borghese determinerà le scelte del repertorio, tradizionalmente limitato a moralità, sotties e farse, ma presto allargato alle commedie e alle tragedie di derivazione italiana. Poi, nel corso del secolo, appaiono le opere di Corneille (nel 1637 fu rappresentato il contestatissimo Cid), quelle di Racine e di Molière. Sulla scena spagnola, coesistono il filone del dramma sacro e della farsa, da un lato, e quello della commedia umanistica, dall’altro. Le compagnie girovaghe, che esistevano dalla seconda metà del Cinquecento e recitavano testi sacri e profani, iniziano quindi a rappresentare le opere di Lope de Vega, Tirso de Molina e Calderòn de la Barca. In Inghilterra, le compagnie di attori professionisti erano solite a esibirsi, oltre che nei castelli dei nobili, nei cortili delle osterie. In seguito questi luoghi furono proibiti e quindi abbandonati, a favore degli edifici teatrali pubblici, il primo dei quali, il Theatre, è edificato nel 1576. In questi teatri vengono rappresentate le opere della più straordinaria serie di autori drammatici che il teatro occidentale abbia mai avuto: Thomas Kyd, Christopher Marlowe, Thomas Heywood, John Ford e altri ancora furono gli autori che scrissero per il pubblico di Londra. William Shakespeare è il maggiore di questa schiera.
In Italia, intanto, anche se i generi teatrali sopravvivono, la forma di spettacolo più caratteristica del Seicento è il melodramma, nato come tentativo compiuto da alcuni dotti fiorentini di recuperare la tragedia greca, il cui testo si credeva venisse nell’antichità cantato piuttosto che recitato. Questa forma lirico-drammatica si fonde quasi subito con gli elementi spettacolari degli intermezzi e diventa lo spettacolo di corte per eccellenza, non solo in Italia, ma in tutta Europa. Caratteristiche del melodramma di corte sono il succedersi di frequenti e veloci mutamenti di scena e l’impiego di meccanismi e trucchi man mano più complessi e ingegnosi.
Accanto al melodramma, nel Seicento, raggiunge il momento di maggior diffusione un’altra forma di spettacolo, non di origine erudita, ma popolare, la Commedia dell’Arte, i cui caratteri essenziali sono il professionismo, le maschere e l’improvvisazione. Nelle rappresentazioni dei comici tutto è affidato all’espressività e abilità dell’attore, la scenografia, o manca del tutto, o è ridotta a qualche povero accessorio. I personaggi della Commedia dell’Arte sono tipi fissi, distinti ciascuno da un nome e un carattere particolare, che nei diversi spettacoli restano invariati, come pure la maschera e il costume. La parte letteraria dello spettacolo, ridotta ad un semplice canovaccio, diviene estremamente duttile, come gli altri materiali scenici; si lavora velocemente intorno a un testo con tagli, aggiunte, variazioni, per poterlo adattare ogni volta ad uno spazio diverso e ad un diverso pubblico.
Sul fronte della tragedia, diciamo che la rinascita della tragedia è opera del Trissino, il quale imperniò la tragedia sullo scontro fra ragioni del sentimento e ragioni politiche, riproponendo la separazione e l’inconciliabilità dei due campi. Più particolare fu la declinazione scenica della tragedia spirituale, genere nato negli ultimi decenni del Cinquecento e che si diffuse nel secolo seguente ad opera di scrittori appartenenti alla Compagnia di Gesù, nella quale ritroviamo «storia esemplare, retorica, immaginazione estetizzante […], un tipo di teatro basato per lo più sulla vita e la morte privilegiata del santo».
Intanto, il teatro si diffonde anche grazie alla stampa: si pubblicano i trattati per la costruzione dei teatri e delle scene in prospettiva; si stampano le scenografie e le partiture musicali; i libretti; i programmi di sala.
Dal momento che il mondo barocco fu un mondo di appariscenza in cui la vista costituiva il senso per eccellenza, inevitabilmente il centro dello spettacolo era costituito dalla sua parte visuale, ossia dalla scenografia. Infatti, l’allestimento spettacolare era il cardine della rappresentazione, con l’adozione di complicate macchine sceniche, che esaltavano questo aspetto. L’area scenica, che un tempo era limitata, si estende anche in profondità, oltre che in lunghezza, per far posto agli effetti prospettici ed alle macchine. Teorici dello spazio e della scena (il Serlio e il Sabbatini su tutti) cominciano a pubblicare le loro riflessioni in trattati, che ebbero grande eco in tutt’Europa, contribuendo alla grandiosità e fastosità dello spettacolo seicentesco, fondamentalmente basato sulla scaena ductilis.
Anche presso la corte dei Boncompagni, stabilmente residente nel castello di Isola di Sora, è possibile rintracciare esempi di quella magnificenza di forme, che furono la caratteristica dell’epoca barocca e degli spettacoli di corte durante il corso del Seicento. Certamente, sono da rimarcare delle differenze dovute non tanto ad un fattore qualitativo, quanto piuttosto a circostanze di tipo quantitativo.
Due esempi sono giunti a noi sotto forma di scenario. Si tratta di due tragedie, recitate nel palazzo dei duchi di Sora. In effetti, la prima particolarità da sottolineare di questo lascito del Seicento sorano è la circostanza che di dette tragedie non ci sono giunte le stesure complete, in versi, bensì gli scenari (ossia il riassunto scena per scena della vicenda raccontata). Va da sé che la pratica di trasferire nell’opera a stampa non la forma estesa del contenuto, ma soltanto il sunto delle scene derivava dalla coeva esperienza della Commedia dell’Arte. E fu una pratica che coinvolse l’intera penisola, dal momento che non soltanto gli editori romani, ma anche quelli degli altri stati italici, mandarono sugli scaffali un buon numero di opere tragiche (in special modo quelle portate in scena nei convitti retti dalla Compagnia di Gesù), delle quali ci sono rimasti soltanto gli scenari.
La prima è il Ciro, rappresentata per Ugo Boncompagni, e pubblicata a Roma dagli eredi dell’editore Corbelletti nel 1659, anno in cui venne anche recitata a corte. L’autore della tragedia non è noto, ma dovette sicuramente ispirarsi ad Erodoto, benché molte influenze provengono anche da particolari romanzeschi. Nell’edizione a stampa è riportato anche l’elenco dei nomi dei signori recitanti, con i relativi ruoli sostenuti. Tra gli altri vi appaiono il marchese Gregorio Boncompagni, che di Ugo era il figlio, e D. Francesco Boncompagni. È evidente che per la corte recitassero appartenenti, o comunque persone vicine alla corte medesima. Anche il coro, che dovette intervenire negli intermezzi e nel prologo, era composto da giovanetti provenienti dalle famiglie nobili di Sora: i Boncompagni stessi, i Ranaldi, i Silvestri. A quest’ultima famiglia apparteneva anche Carlo Silvestri, uno degli interpreti, che sicuramente fu molto versato anche nell’arte del canto.
Lo scenario, secondo l’uso invalso da tempo, si apre con l’Argomento, una sorta di lungo riassunto, nel quale viene esposta l’intera materia della tragedia. La quale rispetta pienamente quelle regole drammaturgiche già invalse nel secolo precedente: un prologo con funzione introduttiva, analoga ai prologhi delle commedie; divisione in cinque atti, a loro volta suddivisi in numerose scene; ai singoli atti si alternano gli intermezzi in musica; la presenza del coro “mobile”, che canta le parti liriche negli intermezzi.
Il prologo, che era musicato e cantato, vede in scena il Tevere, il Liri e il Fibreno (che «venendo prima l’acque sue, e poi con precipitoso divortio dividendosi, circondano il Palazzo Ducale, con la Terra dell’Isola»), che si contendono la gloria e l’onore della regale investitura del protagonista. Appare dunque Nettuno (il prologo accenna anche all’effetto scenografico della prospettiva, che si dovette aprire per far apparire il fondale del mare dal quale emerge Nettuno insieme con altri mostri marini), che s’erge a giudice tra i fiumi contendenti, dettando una soluzione compromissoria che accontenta tutti e tre. Gli intermezzi, che s’intervallavano ai cinque atti, raccontano tutt’altra vicenda: quella biblica di Giuditta e Oloferne. E lo fanno con i modi consueti degli intermezzi, cioè la musica e il canto. Sicuramente la scenografia si avvaleva della scaena ductilis. Non a caso, fin dal prologo i giochi di prospettiva sono resi mediante aperture nei fondali che svelano nuove scenografie (è lo scenario stesso che ci indica come Nettuno e i mostri marini appaiono).
Il Ciro non fu composto appositamente per essere recitato a Isola di Sora. Infatti, si ha notizia di una rappresentazione avvenuta presso il Seminario Romano nel 1654. Tuttavia, rispetto alla recita “religiosa”, quella isolana amplifica la magnificenza e lo sfarzo rappresentativo. Si pensi a cosa dovette essere il momento in cui, «nel maggior caldo della rissa, s’apre la prospettiva, si vede il mare dove sorge Nettuno, che accerchiato da Mostri marini, gli sgrida», rispetto alla più scialba comparsa dei personaggi che poi avrebbero dato vita alla fabula sulla scena del seminario.
L’anno dopo, 1660, in occasione del Carnevale, sempre nel palazzo di Ugo Boncompagni, viene portato in scena il Costantino, “attion tragica”, dedicata agli sposi Giovanni Battista Borghese e Eleonora Boncompagni (figlia di Ugo). Anche per quest’altra tragedia abbiamo solo il “ragguaglio”, ovvero il racconto suddiviso scena per scena, che fu edito a stampa a Roma. Rispetto al libretto del Ciro, l’edizione è più ricca. Innanzitutto, segnaliamo che sul frontespizio appare lo stemma di Isola Liri, con il motto “Amplexa non demersa”. Lo scenario ci conserva anche la dedica (non datata) che gli Accademici Assicurati fecero ai coniugi Borghese. Questi accademici, che dovettero essere una sorta di consulenti letterari dell’operazione scenica (che da un punto di vista economico venne offerta dal duca Ugo), erano un gruppo di studiosi romani, riuniti in sodalizio dal 1630. Da questa dedica apprendiamo che il Costantino isolano è in realtà la traduzione in versi italiani di un’opera in “metro latino composta”, che era stata recitata a Palermo nel 1653, dove similmente al Ciro, il Costantino era stato rappresentato dai padri della Compagnia di Gesù nel collegio di Palermo «à conformità delle allegrezze che per la riconquista di Barcellona, si sono fatte in quella felice città». Insomma, gli Assicurati si fecero carico della traduzione, e probabilmente anche di consulenze di natura squisitamente scenica per la messa in scena della tragedia di Costantino, il cui argomento storico è tratto da autorevoli fonti: Eusebio di Cesarea, Zosimo, Niceforo Xantopulo, e il sorano Cesare Baronio.
L’argomento riporta in sintesi la fabula; seguono due componimenti poetici, anonimi come il resto delle cose che sono contenute nel libretto, uno dedicato «all’eccellentissimo signor principe Borghese», l’altro «all’eccellentissima signora principessa Borghese», all’epoca della messinscena in attesa di un erede e per questo oggetto di invidie delle malelingue, che vengono però messe a tacere, sottolineando la grazia della principessa. È verosimile che i due componimenti furono effettivamente declamati al pubblico cortigiano in occasione della rappresentazione. Il prologo, a somiglianza di quello del Ciro, era musicato. Però, mentre lì si verificò un turbinio di apparizioni magnifiche, che rimandavano in qualche modo allo sfarzo della corte sorana, qui è più marcato l’accenno alla realtà contemporanea. Infatti, ritorna il riferimento al nascituro erede del ducato, e ritorna, nell’ambientazione pastorale, la personificazione del fiume Liri, che, prendendo le difese della ninfa (ovvero la città), ne predice le grandezze, scacciando l’invidia.
Mentre nel Ciro la struttura è più vicina alla tragedia cinquecentesca (gli intermezzi, per esempio, raccontano una sola storia), qui c’è una maggiore varietà. Innanzitutto, nello volgimento dei cinque atti della tragedia furono eseguiti da musicisti il Coro degli Angeli armati, il Coro dei sacrificanti e il Coro dei soldati. Inoltre, anche la struttura degli intermezzi ci lascia intuire la volontà di offrire uno spettacolo vario e accattivante soprattutto per gli occhi, ferma però la finalità didattica del contenuto morale del racconto scenico. Infatti, se nel primo e nel secondo intermezzo (che raccontano rispettivamente la storia di Orfeo e Euridice e quella di Ulisse con le Sirene) l’elemento musicale e canoro sembra nettamente prevalente rispetto al resto, nel terzo (che pure riprende come personaggio Orfeo che, danzando, incanta gli alberi e gli animali di un bosco), all’interno di una cornice pastorale, l’elemento trainante dell’azione è appunto il ballo. Infine, nel quarto intermezzo si esalta la valenza didattico-allegorica dell’intera operazione scenica: si mostrano infatti un favorito e uno sfavorito dalla fortuna, il quale, volendo migliorare la sua condizione, «fa del tutto arbitrio il giuoco».
La scenografia era impostata a guisa di prospettiva fissa. Tant’è che lo scenario avverte che «la scena si finge ne’ Padiglioni di Costantino vicino à Roma». Un’ultima parola sugli attori, che sono per lo più gli stessi della precedente prova, quasi come se avessero creato una vera e propria compagnia di corte. Ma come recitavano questi attori? Qual era il loro stile? In generale, nei decenni a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento emerge un’immagine dell’attore, nobilitata proprio dalla sua parentela con la professione del letterato. E la recitazione degna di questo nome, liberata dalle oscenità, ma anche dai trucchi e dalle risorse tipiche degli intrattenitori di piazza, tende ad ammantarsi della reputazione che appartiene all’oratoria, tutta tesa a condurre un discorso capace di suscitare le emozioni dei presenti, mantenendo un atteggiamento decoroso ed elegante con una gestualità composta e rigorosa, che finisce per garantire la nobiltà della recitazione.
– Vincenzo Ruggiero Perrino