Durante i secoli dell’alto Medioevo tutte le forme teatrali che si svolgevano a Roma erano scomparse, rimpiazzate da quella che viene definita “teatralità diffusa”. Con questo termine ci si riferisce ad un sistema di spettacoli in cui: 1) non esiste più il teatro come edificio, ma gli spettacoli si svolgono in luoghi pubblici (la chiesa, la piazza, la strada) oppure in luoghi privati (oratori, sale aristocratiche); 2) la performance è affidata ai giullari, un eterogeneo insieme di persone che si dedicano allo spettacolo, in forma girovaga: mimi, istrioni, giocolieri, musici, danzatori, poeti, professionisti dell’intrattenimento che si occupano di fare spettacolo; 3) luogo di esibizione sono per lo più le feste cittadine (su tutti il Carnevale), o quelle private; 4) il repertorio è per lo più fatto di brevi scene farsesche o di giochi e virtuosismi acrobatici.
Fin dai primi tempi del cristianesimo i Padri della chiesa condannano duramente il teatro e i suoi professionisti: un ostracismo intransigente che dura, benché andando scemando, fino a tutto l’VIII secolo. Poi, accade che, contaminandosi la figura del giullare con quella di altri soggetti socialmente accettati (su tutti i predicatori), anche questi “turpi” individui cominciano ad essere ammessi nel novero dei privilegiati che sanno fare uso dell’eloquenza e della parola. Del resto, il giullare può essere considerato anche come un professionista dell’informazione, oltre che dell’intrattenimento: il migliore, e il più delle volte l’unico, modo per sapere cosa accadeva in luoghi lontani, era quello di chiederlo a chi da lontano proveniva. E viaggiatori di professione erano appunto i giullari, che perciò erano quasi delle “gazzette”, oltre che depositari di storie orali da tramandare. D’altro canto, i predicatori cominciarono ad imitare stile e modi dei giullari, tant’è che la predicazione è definibile come una performance realizzata nell’intervallo di due testi scritti: a monte la Bibbia e i sermoni-modello, a valle le varie forme di registrazione e di riscritture della predica.
Perciò, a partire dal IX sec., i tempi sono ormai maturi per un teatro, che parte dalla Scrittura, per tentarne una rappresentazione, e che giunge non alla scena come esito rappresentativo, bensì alla carta come luogo di una gestualità tutta interiore. È su queste basi che si sviluppa il dramma liturgico, il cui primo esempio è il Quem Quaeritis, un tropo pasquale, attribuito a Tutilone da San Gallo e, nella sua forma più antica, contenuto in un manoscritto del monastero di San Marziale di Limoges databile nei primi decenni del X sec.. Si tratta di un dialogo tra gli angeli e le Marie, venute al sepolcro per compiere il loro atto di devozione sulla tomba del Cristo:
It(em) de resur(ectione) DNI (=Domini)
INT (=interrogatio): Quem quaeritis in sepulchro (,) christicole?
R(esponsio): lesum Nazarenum crucifixum (,) o caelicole (,)
Non est hinc (,) surrexit (;) sicut praedixerat (;) ite (,) nuntiate quia ressurexit de sepulchro(.)
Il breve scambio dialogico del Quem Quaeritis, intonato dal coro, venne inglobato, nel corso del X sec., in una cerimonia liturgica, la Visitatio sepulchri, nella quale è ravvisabile una maggior cura realistica nella rappresentazione. In seguito, lo sviluppo degli uffici drammatici non conosce freni o ostacoli, fino ad allargarsi, per addizioni e varianti, alle varie festività dell’anno liturgico, tanto che si può distinguere tra un ciclo pasquale e uno natalizio. Al primo apparterrebbero la Visitatio Sepulchri, i vari Planctus Mariae, il dramma della Passione, l’ufficio del Pellegrino e quello dell’Ascensione. Nel ciclo di Natale troviamo invece: uffici dei profeti, ufficio dei Pastori, l’ufficio della Stella, ufficio degli innocenti, e il dramma della Natività.
Altri temi sono tratti dalle vicende del Vecchio Testamento e ne conservano i personaggi, quali Isacco, Rebecca, Giuseppe e i suoi fratelli, gli sposi del Cantico dei cantici, i santi, veri o presunti, come Nicola o Lazzaro, a cui vanno sommati i giochi delle varianti, l’aggiunta di episodi fantastici inseriti nelle narrazioni scritturali con lo scopo di arricchirne l’intreccio.
Alcuni studiosi, tempo fa, avevano proposto una rivalutazione del contributo italiano alla nascita del dramma liturgico. È noto che l’abbazia di Montecassino fu, nei secoli, vera capitale linguistica, culturale ed economica del territorio posto fra Lazio, Campania e Abruzzo, una roccaforte della cultura occidentale all’incrocio fra molte correnti latine, greche e longobarde. Che Montecassino fosse un centro di primaria importanza in Europa oltre che in Italia, è ulteriormente avvalorato dalla cosiddetta Passione di Montecassino.
Dal canto suo, padre Mauro Inguanez, particolarmente benemerito nel mettere in luce l’importanza dell’abbazia laziale nella nascita e lo sviluppo della drammaturgia liturgica medievale, ravvisava la formula primordiale del Quem Quaeritis in un testo copiato a Montecassino durante l’XI sec.:
Processione finita vadat unus sacerdos ante altare, alba veste indutus et versus ad chorum dicat alta voce:
Quem queritis?
Et duo alii clerici stantes in medio chori respondeant:
Jesum Nazarenum.
Et sacerdos:
Non est hic.
Illi vero conversi ad chorum dicant:
Alleluia
Post hec tres alii cantent tropo set agatur missa ordine suo.
Com’è facilmente notabile, nella formula cassinese il Quem Quaeritis ha una veste ancora più essenziale e spartana. Il che lascia pensare che le frasi “in sepulchro christicolae”, “crucifixum o coelicolae” e “surrexit sicut praedixerat; ite, nuntiate quia surrexit de sepulchro”, che venivano recitate nella versione di San Gallo, siano state aggiunte in un momento successivo ad un testo primitivo, diffusosi nelle abbazie benedettine. Sarebbe irragionevole pensare che siano state soppresse posteriormente, il che potrebbe far supporre che il Quem Quaeritis sia andato, nel corso del tempo, ampliandosi e non accorciandosi, fino a confluire nella Visitatio Sepulchri.
La Passione di Montecassino fu scoperta dal già menzionato padre Mauro Inguanez, che ne pubblicò il testo nel 1936. Il testo latino non è completo: nel suo stato frammentario questo dramma narra gli eventi della Passione dal tradimento di Giuda alla crocifissione e al pianto della Madonna. L’importanza di questa Passione deriva dall’essere il più antico dramma liturgico della Passione finora noto. Infatti, fino al ritrovamento della Passione di Montecassino, il testo più antico datava alla fine del XIV sec., o al principio del XV. Si tratta di un testo proveniente da Sulmona, conosciuto col nome di Officium quarti militis, in cui non è riportato l’intero “copione”, ma solamente la parte sostenuta nella recita da uno dei soldati romani, sia nelle scene in cui recita da solo, sia in quelle in cui appare insieme con altri. L’Inguanez ha dimostrato, tra l’altro, che il testo della Passione di Montecassino appartiene allo stesso dramma da cui proviene l’Officium quarti militis. Il che non solo ci permette di completare il testo di Sulmona, ma – cosa ben più importante – ci pone di fronte ad un testo che, per l’epoca della sua redazione, è sicuramente anteriore a tutti i testi finora conosciuti del dramma della Passione. Tuttavia, nemmeno il reperto cassinese ci trasmette il dramma nella sua interezza. Mancano in esso diverse scene – attestate nell’Officium – come quella iniziale dei soldati, che parlano con Pilato, quella in parte del tradimento di Giuda, quella di Gesù davanti ad Erode, quella del Cireneo, le scene di alcuni episodi della Crocifissione, della custodia del sepolcro e quella finale dell’annuncio della Risurrezione.
La Passione di Montecassino, dagli studi fatti dall’Inguanez, sono in scrittura beneventana o longobardo-cassinese. La prima impressione che offrono i fogli cassinesi è appunto quella che essi non siano posteriori al secolo XII, impressione in certo modo confermata dal confronto con altri manoscritti dello stesso secolo.
Un’altra particolarità del testo è che esso si chiude con il pianto della Madonna sotto la croce, del quale sono riportati tre versi. La Vergine, stando ai piedi della croce con Giovanni e le altre pie donne, ingenti clamore richiama l’attenzione del Figlio, intento a parlare al buon ladrone, «quasi ostendens ei ventrem in quo Christus portavit» e proferendo questi versi:
(E)o te portai nillu meu ventre.
Quanto te beio (m)oro presente.
Nillu teu regnu agime a mm(en)te.
L’importanza di questi versi, oltre che per il fatto di essere in volgare piuttosto che in latino (primo esempio attestato di uso del volgare in un dramma liturgico), risiede nel fatto che essi non erano semplicemente declamati, ma erano cantati: infatti sopra di essi sono chiaramente visibili dei “neumi”, che erano le note musicali dell’epoca. Questo ci porta a segnalare un’altra singolarità di questo testo, e cioè che esso contiene il più antico esempio di versi lirici musicati in volgare italiano.
Vi è, infine, un’ultima curiosità da raccontare su questo testo teatrale di grande importanza (che influenzò, tra l’altro, proprio attraverso i versi e la musica del Planctus Mariae finale anche il genere della lauda umbra), in riferimento a quanto accade a Pietro subito dopo l’arresto di Gesù, e con riguardo alla diffusione che sicuramente dovette avere la Passione di Montecassino (abbiamo detto che da Cassino era intanto giunta a Sulmona, e, grazie al francescanesimo, fu nota agli autori di laude).
Nel canto X dell’Inferno di Dante Alighieri, ai vv. 25-27, leggiamo:
La tua loquela ti fa manifesto
Di quella nobil patria natio
A la qual forse fui troppo molesto.
La maggior parte dei commentatori individuava quale fonte di Dante il Vangelo di Matteo. In realtà a ben vedere, la fonte di Dante potrebbe essere un’altra. Infatti, nella Passione di Montecassino, l’ancella di Caifa si rivolge a Pietro dicendogli:
Licet tibi sit molestum
Te loquela manifestum
Facit adque cognitum.
A parte il comune rilievo della loquela, le coincidenze tra la strofa dantesca e quella della Passione sono troppo strette per essere casuali. Si notino le coppie “molestum” e “manifestum” (nel testo cassinese), e “manifesto” e “molesto” nell’Inferno, ambedue in rima. Acclarata l’età della Passione di Montecassino agli albori del XII sec., è evidente che Dante abbia avuto in qualche modo conoscenza del dramma cassinese. Purtroppo, senza risposta è la domanda sul dove il Somma Poeta abbia visto la rappresentazione (o letto il testo). Che Dante possa aver soggiornato a Montecassino è indimostrabile, e troppo esile è la traccia che qui abbiamo evidenziato per supportare una tale ipotesi. Tuttavia, la conoscenza che egli ne ebbe attesta la diffusione che il testo cassinese dovette avere già negli anni immediatamente successivi alla sua stesura.
– Vincenzo Ruggiero Perrino