Il teatro dell’Ottocento è intimamente legato agli avvenimenti politici che in quegli anni modificarono l’assetto della società italiana. Non a caso, il Risorgimento dette impulso e vigore all’idea, già vagheggiata dai drammaturghi del Settecento, di un teatro nazionale. Anzi, l’idea illuministica di teatro nazionale divenne tutt’uno con quella tipicamente romantica di un teatro popolare. Ne conseguì la nascita di un teatro borghese, che affrontava argomenti tratti dalla storia d’Italia o di grandi e importanti fatti del passato, al fine di dare un insegnamento morale agli spettatori.
Le discussioni svolte intorno al genere tragico nei primi anni dell’Ottocento si inseriscono nella più ampia polemica sviluppatasi in quel periodo tra classicisti e romantici, i primi forti dei contributi offerti nel teatro da Ugo Foscolo, i secondi richiamandosi agli esiti drammaturgici di Alessandro Manzoni. I classicisti propugnavano un rispetto degli schemi classici della tragedia, nella quale andava innestato un nuovo contenuto politico; i romantici invece volevano abbandonare il rispetto delle unità pseudo aristoteliche, trattare argomenti desunti per lo più dal mondo greco e romano, ed erano favorevoli alla presenza di un numero limitato di personaggi.
Il melodramma si giovò in particolare dell’esperienza di Gioacchino Rossini, nella cui musica c’era una vitalità nuova e dirompente, ignota alla linea aggraziata e aristocratica dei compositori settecenteschi. Dopo di lui, Bellini e Donizetti trovarono nella melodia lo strumento principale della propria espressione: era, la loro, una musica fatta ad uso e consumo dei nuovi ceti borghesi, ma destinata a diventare veramente popolare, a essere accolta cioè non solo dagli strati colti del pubblico, ma anche da quelli più sprovveduti culturalmente e socialmente. Infine, arte popolare e nazionale fu quella di Verdi, il quale, pur partendo da precisi presupposti storici e sociali, seppe farsi portavoce di un’ansia che non era solo di una ristretta élite intellettuale, ma anche di quegli strati di contadini, di operai, di artigiani, che si potevano riconoscere nei ritmi delle sue opere.
Per quel che riguarda la commedia, l’’Italia risorgimentale non poteva cogliere i risvolti corrosivi e amari del realismo goldoniano, avviandosi piuttosto verso un mestiere teatrale, quasi sempre compiaciuto intorno agli stessi procedimenti con scarse variazioni strutturali. Altresì, i commediografi dell’Ottocento risentivano della mancanza di una lingua d’uso comune. In tal modo la commedia finì col perdere la sua forza di denuncia e la sua concretezza, per evadere, in linea con il nuovo gusto romantico, nei regni del romanzesco e del sentimentale, o della farsa divertente ma innocua.
Infine, sul fronte delle teorie teatrali, accanto alla riflessione sul ruolo dell’attore, iniziata nel Settecento, la progressiva “industrializzazione” dei metodi produttivi dello spettacolo impose, sul finire dell’Ottocento, un duplice canale di indagine. Da un lato, gli operatori teatrali cominciarono – complici le rinnovate legislazioni statali dell’Italia unita – a essere considerati come soggetti di diritto, con l’inclusione delle loro specifiche professionalità nell’alveo dei diritti d’autore (non a caso nasceva la SIAE). Da un altro lato, dall’interno del mondo teatrale, nascevano le riflessioni di uomini di teatro – su tutti Adoplhe Appia e Gordon Craig – che, approfondendo e superando le teorie di Wagner sulla Gesamkuntswerk (opera d’arte unitaria), cominciarono un’operazione di “riteatralizzazione” del teatro, inteso non più come espressione vassalla della letteratura, ma come arte dotata di un proprio specifico linguaggio scenico. Teorie che segneranno tutto il Novecento e la nostra contemporaneità, affollata di mille rivoli avanguardistici.
Abbiamo detto poc’anzi che il teatro ottocentesco trova nel “popolare” la sua fonte più ricca. Pertanto, se si vogliono investigare le forme di teatro a Veroli nel XIX sec., è alla mondo delle feste e tradizioni popolari che bisogna, in primo luogo, volgere l’attenzione.
Un letterato livornese, Giovanni Targioni Tozzetti (autore, tra l’altro, del libretto della Cavalleria rusticana di Mascagni), nel 1891 pubblicò un Saggio di novelline, canti ed usanze popolari della Ciociaria. Essendo professore al liceo di Ceccano, ebbe modo di soggiornare a lungo nella zona e di conoscere meglio gli usi e i costumi del luogo, ovvero tradizioni e riti legati al “ciclo della vita”, che permettono di caratterizzare pienamente il folklore ciociaro.
Per esempio, molto particolare era il rito nuziale. Infatti, la sera in cui venivano combinate le nozze, lo sposo andava sotto le finestre della ragazza e faceva la serenata, cantando, in un tono piagnucoloso, che terminava in una cadenza prolungatissima ed uniforme, parole di tenerezza, o annunziava il giorno delle nozze. Dopo la serenata, il fidanzato saliva in casa, per mettersi d’accordo con i genitori della sposa per la cerimonia. Giunto il giorno prestabilito, lo sposo usciva di casa e s’avviava in chiesa in abito da festa: cappello nero, a forma conica, giacchetta di panno scuro, calzoni bianchi di fustagno, fusiacca di lana rossa, camicia bianca molto aperta sul petto e le “ciocie”. Invece, la ragazza andava in chiesa vestita col “pannuccio” bianco in testa, i pendenti agli orecchi e i coralli al collo, col “tunnu” (gonnella) di lana, il “busto” e la “mantella” o “zinale” (grembiule) nuovi, accompagnata da due comari. Appena sposati, i due usciavano dal tempio, tra i compagni festanti, ed ognuno dei novelli coniugi, seguito dagli amici e dalle amiche, per vie opposte, si recava a casa del marito. A Veroli, gli sposi trovavano sul loro percorso la strada sbarrata da nastri multicolori; essi erano perciò costretti a fermarsi, a tagliare il nastro e a pagare una “multa” (una specie di mancia augurale) agli autori del “blocco stradale”.
Altra cerimonia era quella del “reconsulo”, cioè un pranzo abbondante offerto da parenti o amici ai familiari di un defunto, pranzo che simboleggiava la continuità della vita individuale e sociale, nonché l’intima partecipazione al dolore per la perdita della persona scaomparsa.
C’erano anche molte tradizioni legate a sentimenti di religione e pietà, alcune delle quali derivate da riti pagani, come i falò di S. Giuseppe, festa della primavera, o i falò di S. Giovanni, festa del raccolto.
Ancora: fino a pochi decenni addietro, il terribile terremoto che distrusse Veroli l’8 settembre 1350 veniva annualmente ricordato con una processione penitenziale per le vie del paese, mentre tutte le campane delle chiese suonavano a morto. Nell’Ottocento a Veroli si svolgeva anche la processione delle “Cappuccelle”. Erano così denominate le zitelle povere di buoni costumi, che partecipavano alla processione di S. Salome indossando un gran manto che le nascondeva dalla testa ai piedi, in modo da non essere riconosciute. Alle più bisognose ed oneste, per antica tradizione ed appositi lasciti, veniva offerta una dote.
Un altro “spettacolo” che, nella seconda metà dell’Ottocento, costituiva il clou delle feste locali (generalmente a conclusione dei festeggiamente patronali) era il “ballo della pantàsema” o della “segnora”. La pantàsema era un fantoccio realizzato in legno, ricoperto di carta velina colorata, che raffigurava una gigantesca figura femminile. Sul corpo del pupazzo gigante erano applicati bengala e fuochi pirotecnici. Questa pantàsema eseguiva in piazza danze a suon di musica, per la gioia di piccoli e grandi che le facevano cerchio intorno, fin quando, tra appalusi e grida essa prendeva fuoco, mentre tra le fiamme usciva il volontario giovane che dall’interno aveva manovrato i movimenti ritmici del fantoccio.
A quest’humus popolare, tanto fertile e ricco di suggestioni anche “visive”, si dovette ispirare il marchese Luigi Bisleti, autore della tragedia Le maremme, pubblicata a Roma nel 1882.
Luigi Bisleti, che ricoprì anche la carica di sindaco della città di Veroli ai primi del Novecento, ha lasciato un nutrito corpus, fatto sia di opere di ispirazione poetica, che di testi di natura politico-oratoria. Tra le prime vogliamo ricordare una silloge poetica pubblicata a Faenza (Poesie, 1897), e i sonetti raccolti sotto il titolo di Verulo: nell’anniversario di Sciara-Sciatt, 23 ottobre 1911 (pubblicati nella città natale in centocinquanta esemplari nel 1914). Fu anche autore di un libretto in cui raccolse notizie storiche e di devozione popolare sulla piccola chiesa della Madonna dell’Olivello.
Come suddetto, Bisleti scrisse anche opere oratorie e di considerazioni politiche, su problemi e questioni del suo tempo, tra le quali una sorta di vademecum per gli insegnati verolani (Ai maestri delle scuole elementari del mio comune: avvertimenti, 1899); una Relazione sui rapporti scambievoli, rispetto alla pubblica Biblioteca, tra la Città e il seminario, al sindaco di Veroli (1907), un Discorso pronunziato dal marchese Luigi Bisleti nella tornata consiliare del novembre 1908 sulla questione del bosco comunale (1908), oltre ad un breve testo dal titolo Atina (1910), dedicato ad una delle tre città confederate da secoli con Veroli, e alla prefazione anteposta alla Historia Verularum di Vittorio Giovardi, che Bisleti scrisse presumibilmente sul finire degli anni Dieci del secolo scorso.
Le maremme sono un’opera giovanile, che infatti mostra i limiti stilistici di un talento ancora acerbo. Eppure, ha motivi di pregio. Innanzitutto, come dicevamo poc’anzi, questa tragedia, ancorché ambientata nelle maremme del contado senese, è intimamente legata alle tradizioni verolane, tant’è che in apertura viene presentato un coro di contadini che, nell’aia di una casa colonica al tramonto, intona un canto gioioso e festaiolo. Al coro segue la voce del poeta stesso che, in una sorta di rapimento estatico, descrive il paesaggio d’intorno, fatto di vasti piani, seminati d’uliveti e case, nei quali non è difficile riconoscere il paesaggio del Basso Lazio. In questi versi, Bisleti introduce anche una nota autobiografica, poiché scrive: «Sospiro ai caldi giorni d’adolescenza, agl’impeti, ai bollori vulcanici del sangue, agl’incompresi, ai forti, irrefrenati urti del cuore de’ miei tre lustri». Dunque, quest’opera è, come accennavamo, un frutto giovanile dell’autore adolescente.
Le maremme non è priva di un gusto di ascendenza tardo-romantica. Tanto che l’autore intende raccontare una storia d’amore senza lieto fine, e che, anzi, scandisce il suo ritmo in cinque atti, intitolati significativamente “Amore”, “Dolore”, “Sangue”, “Abbandono”, e “Morte”. Il binomio amore-morte, languidamente perseguito da tanta letteratura coeva, anche teatrale, viene qui declinato secondo una scansione rigidamente codificata, nella quale i personaggi sono come irretiti dalle proprie passioni, in un crescendo inarrestabile.
Altrettanto vicina agli stilemi del Romanticismo è anche l’ambientazione campestre. Bisleti è attento a porre in rilievo il contrasto tra la placida tranquillità delle campagne maremmane e l’intimo dramma dei personaggi. Tuttavia, la scena agrestre è solo uno sfondo sul quale agiscono questi personaggi, lacerati e disperati, amplificandone i moti interiori.
Non sappiamo se Bisleti scrisse altre opere drammatiche, né se Le maremme furono mai portate in scena, benché, secondo l’uso dell’epoca, il più delle volte alla scrittura di una tragedia si attendeva più per finalità di lettura che non di rappresentazione. Non a caso, lo stesso Manzoni giudicava Adelchi e il Conte di Carmagnola, opera destinate più ad una fruizione individuale attraverso la lettura, che non al palcoscenico.
A metà dell’Ottocento, anche nel seminario vescovile di Veroli era ancora in uso che gli studenti dessero sei saggi di recitazione in pubblico. Infatti, presso la Biblioteca Angelica di Roma è conservato un libretto in cui sono riportati i testi poetici che vennero declamati dagli studenti di “rettorica ed umanità”, nel seminario in occasione dell’assegnazione dei premi di fine anno, nell’agosto del 1866.
Chiudiamo, dando qualche cenno all’attività di un musicista, Eugenio Bubali, che fu autore di melodrammi, ma anche di opere di carattere teorico-didattico. Come scrive Marcello Stirpe, Bubali, che era nato nel 1837, fu «tra i protagonisti il più discusso della vivace vita culturale cittadina della seconda metà del XIX fino a tutto il secondo decennio del nostro secolo».
Il primo frutto della sua attività di compositore fu, nel 1856, Sette parole di nostro signore Gesù Cristo, che grande successo ebbe a Veroli, tra i suoi stessi concittadini. Infatti, questo oratorio venne messo in scena presso la basilica di Santa Salome, il venerdì santo di quell’anno, per interessamento della locale confraternita della Passione. Ebbe un tale successo che una riduzione per organo e voce venne eseguita per decenni presso la stessa chiesa in occasione delle festività pasquali.
Il municipio, una volta che il giovane si fu trasferito a Roma per completare i suoi studi musicali, gli riconobbe una sovvenzione mensile di dodici scudi a titolo di mutuo, finché conseguì il diploma di “maestro compositore” nel 1861. Dopo la presa di Roma, nel 1872 venne nominato maestro di musica del comune di Veroli. Tuttavia, inimicizie varie di alcuni concittadini fecero sì che nel 1894 l’ufficio venisse soppresso. Non rassegnato, tornò a dedicarsi alla composizione, perseguendo l’intento di riformare il metodo di insegnamento musicale allora vigente nella scuola italiana. Riuscì addirittura ad interessare il ministro della Pubblica Istruzione del tempo, Guido Baccelli, ma nonostante sovvenzioni e interessamenti anche di alte cariche, la riforma progettata rimase solo sulla carta. Tuttavia, «volle ugualmente divulgarlo e tradurlo in pratica, prendendo la singolare e clamorosa iniziativa di istituire nel 1906 una scuola privata in casa propria», che ebbe un certo successo. Morì nella città natale nel 1920.
L’esordio artistico del giovane maestro avvenne nella sua città nel 1862 con la rappresentazione nel pubblico teatro di un’opera semiseria in due atti, L’ambiziosa delusa, su libretto di Fortunato Mattei. Si tratta di un’opera ricca di pathos e di bei momenti melodici, che riscosse un buon successo, ma che resta ancora una prova poco significativa.
Su libretto di Augusto Caroselli, all’epoca scrittore molto ben considerato dalla critica, Bubali scrive la musica del dramma lirico Isabella Orsini, che gli diede, nel 1870, ampio successo a Velletri (patria del librettista), benché ci fossero stati contatti per una rappresentazione addirittura a Milano.
Sul finire del secolo, Bubali, liberatosi dagli impegni scolastici, tornò a dedicarsi al melodramma, abbandonando gli abusati moduli della musica romantica, e sperimentando nuovi schemi armonici e melodici già diffusi nelle opere dei più celebri compositori del tempo. Su versi di Pier Giovanni Salvi, compose una Luisa Valliere che, pur ricca di pregevoli e originali innovazioni tecniche e formali, non fu mai rappresentata. Senza rassegnarsi, il compositore ritornò più volte sulla partitura, arricchendola di tante sfumature e dandole un nuovo titolo, Poema sinfonico, «un lavoro elaborato, scritto con maestria, condotto con dottrina e con seri intendimenti artistici. Lo strumentale è variato, pittoresco, elaborato, ricco di dettagli, di buoni impasti strumentali, di forti effetti di sonorità e non cade mai nella volgarità plateale. Il bubali in poche parole con accortezza encomiabile ha saputo trarre molto profitto dalla tavolozza orchestrale».
Oltre ai citati melodrammi, Bubali si cimentò anche con la composizione di notturni e ballate, nonché di inni e marce patriottiche, e di opere di polifonia sacra. Come abbiamo accennato, fu anche autore di manuali e trattati teorico-didattici, di cui almeno due è utile dare un cenno.
La prima opera, di carattere più tecnico, è Breve trattato di contrappunto doppio estratto dalle opere inedite. Esemplare pratico ed edurimenti melodico-armonici per la necessaria cultura della musica artificiosa (Veroli, 1913). In essa è esemplificato il concetto di contrappunto doppio, nel quale si combinano i sette intervalli diatonici in maniera duplicata, triplicata, in due opposte forme, consonante l’una, dissonante l’altra, così trasformando il contrappunto in triplo e quadruplo. Il risultato che si ottiene, associando le formule della scienza matematica ai principi fondamentali della tecnica di composizione (egli stesso parla di “metodo scientifico”), è una vera metamorfosi armonica.
Il secondo è la Grammatica della lingua musicale, pubblicata in Frosinone nel 1902, opera nella quale sostiene che anche la musica è un linguaggio e, come tale, può avere una grammatica vera e propria. Stando ai dettami di queste nuove teorie, lo studente di composizione è facilitato nel suo compito, poiché in tal modo egli sa quello che fa e quello che hanno fatto i celebri compositori, studiando le loro composizioni. Quella di Bubali, in campo musicale, appare una vera e propria rivoluzione copernicana, al pari di quella, riferita poc’anzi, che Craig e Appia stavano portando avanti in campo teatrale in quegli stessi anni: ciascuna arte ha un statuto linguistico proprio, ha una grammatica e un statuto ontologico, da non confondersi con le altre arti e men che meno con la letteratura.
L’Ottocento teatrale stava per finire, lasciando il posto alle avanguardie primo-novecentesche, che avrebbero completamente rinnovato la scena mondiale in maniera dirompente e assolutamente rivoluzionaria, per i decenni a venire.
Vincenzo Ruggiero Perrino