Avevo circa diciassette anni quando provai a fare ciò di cui avevo sentito parlare diverse volte senza capirci tanto: costruire una “relazione personale” con Dio. Mi avevano spiegato i miei amici del gruppo di preghiera che per farlo avrei dovuto incontrarlo “a tu per tu”.<<Cercati un posto tranquillo>>, mi dissero i più esperti, <<e rimani con Dio per circa un’ora. Porta con te la Bibbia per leggere qualche versetto, poi medita e prega come sai fare; non preoccuparti di nulla, la cosa importante è che tu stia in sua compagnia. Egli sarà con te, devi solo aver fede!>> Feci ciò che mi dissero. Le prime volte scelsi di andare nella mia camera. Entravo e mi sedevo comodamente su una sedia o per terra, potavo con me la Bibbia, come mi era stato consigliato, e rimanevo in silenzio cercando di concentrarmi e di liberare la mente dai tanti pensieri che si accavallavano ininterrottamente. Non fu un’operazione semplice. Talvolta mi chiedevo come facessero alcuni dei miei amici a trascorrere serenamente quell’ora che a me sembrava un’eternità. Ricordo che certe volte, nel combattere il sonno e la noia che sopraggiungevano, ne uscivo distrutto. Non volevo, però, darmi per vinto, sebbene fosse come ingaggiare la lotta col sonno per rimanere vigili mentre senti che la cosa più bella al mondo, in quel momento, è dormire: mi riducevo con la testa come un pallone e, per questa ragione, saltavo molti quiet times (momenti di tranquillità) così li chiamavano. Nelle riunioni del gruppo giovani, ogni tanto mi chiedevano: <<Come va il tuo quiet time?>>. <<Così così…>>, rispondevo, provando quasi un senso di sconfitta. Mi faceva male ammettere di non riuscire a rimanere una sola ora in quella situazione. Cercai di insistere tra le volte in cui davo buca e i legittimi periodi di vacanza. Col passare del tempo, qualcosa cominciò a cambiare: quella sosta che all’inizio era una tortura della mia mente divenne via via meno insidiosa e difficile. È conservato nelle tavole della mia memoria un momento in cui avvenne un cambiamento inaspettato. Era l’estate del 1989 e, come ogni anno, andai con la mia famiglia a trascorrere la stagione estiva nella nostra casa di campagna. Ho sempre amato perdermi per un po’ tra i colori e gli odori di madre natura che, col dolce silenzio delle sue forme e con la sua bellezza sempre fresca, sembra parlare di un <<Qualcosa>> che non si può spiegare a parole ma che, ne sono certo, ciascuno avverte di tanto in tanto nella vita. Fu così che decisi d’organizzare i miei appuntamenti con Dio in un posto dove, almeno per mia naturale inclinazione, non mi sarei annoiato: fra gli alberi di limone del nostro giardino. Ogni giorno, alla stessa ora del pomeriggio, mi recavo al limone, mi sedevo per terra e vi rimanevo per circa un’ora. Il mio sguardo si alzava a giocherellare con i raggi del sole spezzati dal verde delle foglie e cercavo di scorgere, tra i rami intricati, l’azzurro del cielo. Continuavo a trastullarmi con i miei pensieri mentre osservavo le formichine che si adoperavano nel loro laborioso andirivieni; mi ritrovavo fin dentro il formicaio. Dopo un po’ mi dicevo: <<Sono qui per parlare con Dio e lui sta aspettando che io gli parli!>>. Così iniziavo a parlare e a raccontare tutte le mie cose, quelle che avevo nella testa e nel cuore. Parlavo e parlavo, fino a che ne sentivo il bisogno. A tratti, mi riscoprivo a parlare da solo e ad ascoltare i miei bei discorsi, altre volte non sapevo cosa dire. Ero un giovane come tanti, né bambino né uomo in fondo, un coacervo d’idee e sentimenti che si agitavano nel cervello, alla ricerca di un equilibrio. Tra un discorso e l’altro, mi ricordavo di quanto mi avevano suggerito: <<Bada bene di non fare un monologo, devi anche ascoltare Dio che ti parla!>>. Il modo più comune per farlo era leggere un passo della Bibbia e rimanere in meditazione: essa è una sorta di silenzio riflessivo durante il quale si cerca di fare spazio nella mente per entrare in contatto con se stessi e con Dio. È un momento in cui, mediante un processo intuitivo, ci si apre a nuove visioni della realtà (interna ed esterna), un esercizio al quale ti abitui con gradualità e che diviene col tempo sempre più naturale nel suo svolgersi: migliori la concentrazione, impari a focalizzarti sugli stati emotivi che ti attraversano e trovi nuove motivazioni per orientare l’azione verso una precisa direzione. Tutto questo accade nell’ambito della relazione con Dio, dal quale ti senti conosciuto, compreso, sostenuto e amato in maniera incondizionata. Con il costante esercizio riuscii a sperimentare una vera e propria quiete della mente e la sensazione di poter essere presente a me stesso in qualsiasi momento e nel giro di pochi istanti. Un’esperienza che diviene possibile quando si raggiunge uno stato di autoconsapevolezza che coinvolge le sensazioni corporee, i pensieri, le emozioni e i sentimenti.
(Giovanni Barrale, “Sotto l’albero di limone: storia di un appuntamento quotidiano”)
Angela Taglialatela