LAUDATO SI’

“LAUDATO SI’, MI’ SIGNORE”, cantava San Francesco d’Assisi. In questo bel cantico ci ricordava che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba”. (n. 1)

Qualche settimana fa, in occasione dello svolgimento del secondo incontro del Convegno Diocesano, presieduto da S.E. Mons. Gerardo Antonazzo (tenutosi presso la chiesa di San Carlo – Isola del Liri) era stato invitato Mons. Domenico Pompili, neo Vescovo di Rieti, nonché responsabile dell’Ufficio Nazionale delle Comunicazioni Sociali. Pur non avendo preso parte personalmente al Convegno di quel giorno, non ho mancato di seguire la diretta via streaming messa a disposizione per i visitatori del sito. Lo streaming degli appuntamenti più importanti della vita diocesana rappresenta, infatti, un altro dei tanti servizi curati dal team della Pastorale Digitale 2.0, ragazzi e responsabili ai quali va un ringraziamento particolare, perché quotidianamente e gratuitamente, con mirabile impegno e professionalità, si spendono per  la comune missione di essere testimoni contemporanei di Cristo e della sua Chiesa.

Tra i temi affrontati in quel pomeriggio, Mons. Pompili ha rimandato alla lettura dell’ultima Enciclica scritta dal Santo Padre Francesco “LAUDATO SI’“, lettera enciclica sulla cura della casa comune. A dire il vero la proposta m’incuriosiva e qualche giorno fa, con grande sorpresa, ho ricevuto in regalo proprio il testo di Papa Francesco che desideravo leggere. Ripercorrendone la lettura, vorrei adesso tratteggiare i più importanti e preziosi spunti di riflessione che è possibile trarne, senza la pretesa di risultare esaustiva. È molto bella e mi unisco al Monsignore nel suo invito a leggerla. “Ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo. Insieme a tutte le creature, camminiamo su questa terra cercando Dio”. (n. 244)

Il Santo Padre Francesco, alla fine di questa Enciclica, prima di proporre le due preghiere conclusive, sostiene di aver compiuto una “riflessione insieme gioiosa e drammatica”. Mi sento di dire, però, che è la gioia a prevalere seppur i presupposti siano profondamente dolorosi. È la gioia di poter credere in un cambiamento rivoluzionario e in una nuova umanità. È la gioia che profondono le parole di Papa Francesco, piene di speranza anche quando descrivono i peggiori disastri in cui versiamo. Quest’Enciclica, infatti, è innanzi tutto una dura ma obbiettiva presa di coscienza sulla realtà della nostra casa comune, la terra con il suo Creato. È lucidissima nell’analisi di quanto danno abbiamo fatto alle cose e alle persone impostando i nostri modelli di sviluppo in maniera dissennata. Nella sua prima parte lo scritto è un riassunto, altamente educativo, della situazione in cui si trova il mondo: inquinamento e cambiamento climatico, la questione dell’acqua, la perdita di biodiversità, il degrado sociale, il diffondersi dell’iniquità in un mare d’indifferenza e di presunta impotenza. Un quadro che non lascia spazio a dubbi: “Basta guardare la realtà con sincerità per vedere che c’è un grande deterioramento della nostra casa comune” (n. 61). Saper guardare, con la stessa capacità di sorprendersi e intenerirsi per la bellezza del Creato propria di San Francesco – questa magnificenza sta tutta nel titolo, Laudato si’ – vuole anche dire saper cogliere uno stato umano non più adeguato alla casa comune e calarsi pienamente nel nostro tempo. Il richiamo a “coltivare e custodire“, come scritto nella Genesi (2,15) citata in più occasioni nel testo, è al tempo stesso un rimando a qualcosa di antico e ancestrale, che ci chiede sin dall’inizio dei giorni di vivere con equilibrio la nostra natura più profonda di esseri umani. Intanto, diventa un impegno rivoluzionario per il futuro.

Più volte Papa Francesco parla di bellezza, come criterio estetico e spirituale, che deve guidare la nostra etica e la nostra politica. La stessa bellezza che canta San Francesco, il Poverello di Assisi. Nell’esortazione a coltivare e custodire, al di là di un epocale senso filosofico e teologico che sta tutto nella definizione di “ecologia integrale” – un qualcosa senza tempo che ci chiede di lavorare per costruire un nuovo umanesimo e cambiare i paradigmi dominanti – si intravedono anche alcune stringenti questioni politiche: “l’inseguimento quasi spasmodico del profitto impedisce che i governanti prendano decisioni lungimiranti, di ampio respiro, capaci di immaginare un futuro oltre le scadenze elettorali” (n.180).

In questo triste quadro che ha ridotto la condizione umana a qualcosa di misero, sia per i molti che vivono in povertà sia per chi è circondato da ricchezze ma ha completamente perso il senso di un vero benessere interiore e sociale, prevalgono quelle che i sociologi hanno definito “relazioni povere”: mere relazioni utilitaristiche tra l’uomo e le cose, ma anche tra gli uomini stessi. Finché una cosa – o un essere vivente e una persona, purtroppo – serve a uno scopo preciso e mi dà ciò che voglio, la uso o intrattengo con essa una relazione. Nel momento in cui questo bisogno non è più soddisfatto, la cosa, l’essere o la persona vengono scartate, gettate via, si tronca il rapporto. È la cultura dello scarto, il consumismo che tenta di riempire i nostri vuoti. È quello che facciamo con la natura ma anche con i nostri fratelli e sorelle che muoiono di fame e malnutrizione, soffrono la povertà, con i quali non abbiamo rapporti diretti e non ci possono dare nulla di cui sentiamo bisogno: la loro fame e la loro condizione diventano ai nostri occhi qualcosa di fatalisticamente inevitabile, qualcosa che appartiene al mondo e non si può cambiare, quasi fosse una questione di fortuna o di sfortuna. Qualcosa di tollerabile, in poche parole, il che è agghiacciante.

Significa che la rottura rischia di essere insanabile: “Trascurare l’impegno di coltivare e mantenere una relazione corretta con il prossimo, verso il quale ho il dovere della cura e della custodia, distrugge la mia relazione interiore con me stesso, con gli altri, con Dio e con la terra. Quando tutte queste relazioni sono trascurate, quando la giustizia non abita più sulla terra, la Bibbia ci dice che tutta la vita è in pericolo” (n.70).  L’Enciclica ci chiede di partire dalle risorse, dalla terra, dall’acqua, dall’agricoltura e dal cibo, quindi da un afflato ecologico che però immediatamente comprende anche l’uomo e non può più tollerare le ingiustizie che perpetriamo, tanto alla natura, quanto ai nostri fratelli e sorelle. È questa l’ ”ecologia integrale“: ambientale, economica, sociale, culturale, della vita quotidiana, che protegge il bene comune e sa guardare al futuro. “Custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e spesso sono nella periferia del nostro cuore” come ha detto Francesco nell’omelia per l’inizio del Ministero Petrino.

Il richiamo di Papà Francesco è universale e non riguarda soltanto il mondo cattolico: egli parla dell’urgenza di una ritrovata fraternità tra tutti gli uomini e donne della terra. L’impegno di garantire a tutti il diritto al cibo e all’acqua deve diventare la missione principale del nuovo umanesimo che auspica Papa Francesco. (n. 30)

Il Santo Padre parla dell’importanza di rieducarsi ad un nuovo stile di vita, più sobrio, prendendo a modello gli umili. Gli umili sono i più vicini alla terra: lo dice anche l’etimo della parola “humus” da cui deriva la creatura della terra, l’umano. Ma sono, dice Papa Francesco, anche i più vicini a Dio. Anche i poveri e i sofferenti devono essere ascoltati. Da Giobbe (7,5-7): “La mia carne è coperta di vermi e zolle di terra, la mia pelle si screpola ed è ripugnante. I miei giorni sono più veloci di una spola da tessitore e si consumano senza speranza. Ricordati che la mia vita è un soffio, il mio occhio non vedrà più il bene”. Quasi inutile ricordare che il riferimento a questa velocità che impedisce all’occhio di vedere bene è esattamente ciò che ci è successo nella frenetica società dei consumi, in cui correre per soddisfare bisogni effimeri, perdendo di vista le nostre responsabilità, la lucidità nello scegliere e infine la capacità di ascolto dell’altro: tutto questo ci rende sordi e ciechi, tolleranti verso gli scempi che si compiono sul Creato e nei confronti degli altri.

Negli ultimi due capitoli, il quinto ed il sesto, il Santo Padre parla dell’irrinunciabile valore delle politiche locali e internazionali proponendo alcune linee di orientamento e di azione; infine ci presenta un’umanità inserita in un sistema fatto di connessioni in cui, ristabilire un rapporto armonico con la natura, sentirsi parte di essa, nella sobrietà, nella valorizzazione delle diversità umane e naturali (contro le tendenze omologanti derivanti dalla globalizzazione), attraverso un uso controllato e sapiente della tecnologia e della scienza, vorrà dire collaborare affinché siano debellate la fame e la malnutrizione, nella ricerca della pace tra tutti gli uomini e le donne, che ci restituirà un rinnovato senso e un rinnovato piacere, di saper stare al mondo.

Tornando a San Francesco, c’è una frase a lui attribuita che mi sembra una chiusura perfetta per ogni ragionamento attorno a questo scritto del Santo Padre: “Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”.

– Angela Taglialatela

 

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