L’esaltazione della propria eccellenza fa brutti scherzi

XXX Domenica del Tempo Ordinario, Anno C

Il fariseo ed il pubblicano, come il ricco epulone ed il povero Lazzaro, sono i due aspetti della vita interiore dell’uomo: uno proteso verso l’auto esaltazione e la gloria, l’altro consapevole del proprio nulla davanti a Dio e per questo giustamente esaltato.

Il fariseo è l’uomo comune presuntuoso e superbo che si fida delle sue forze, dei suoi giudizi, delle sue conquiste. Non mette assolutamente in conto l’intervento di Dio nella propria vita. Lo ringrazia, è vero, ma solo ai fini di esaltare se stesso ai danni degli altri. La sua è una corsa alla propria eccellenza. Purtroppo anche nella vita spirituale può darsi il caso di chi è più attento a sé che al suo rapporto con Dio, con i fratelli e con il creato. Anche questo significa rinchiudersi nel proprio mondo, come succede per il ricco epulone, schiavo dei piaceri materiali, per orientarsi solo al proprio ego.

Il vero santo si preoccupa del prossimo non certo per denigrarlo come fa’ il fariseo: Ti ringrazio che non sono come gli altri … e neppure come questo pubblicano. L’esaltazione della propria eccellenza fa’ brutti scherzi, potrebbe precludere anche l’eterna salvezza da parte di Dio: Questi a differenza dell’altro tornò a casa sua giustificato…

Il Signore vuole metterci sull’avviso. Quanti falsi santi, falsi profeti e falsi apostoli si fanno strada nella Chiesa senza avere la benedizione di Dio! Spesso ci si crede guide degli altri senza avere un minimo di carisma neppure per guidare se stessi: Se un cieco guida un altro cieco cadranno tutti e due nella fossa! (Mt 15, 14).

Il fariseo ha il cuore indurito. Non si accorge della propria miseria e che ogni cosa, anche la propria virtù, è dono infinito ed incommensurabile di Dio! E’ vero che dobbiamo porgere a Dio il nostro merito, le nostre buone opere, ma non sono certo queste che ottengono come un compenso la misericordia di Dio! Esse sono solo la buona disposizione d’animo per sperare nella salvezza che rimane un dono gratuito di Dio e non l’oggetto di un contratto: digiuno due volte la settimana … pago le decime … quindi tu mi devi dare … Che cosa?

Quest’equazione, questo negozio giuridico, non funziona davanti a Dio! Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova (1Cor 1, 1-3).

Parlare le lingue degli angeli e degli uomini, avere doni mistici come la profezia ed i miracoli ed anche il coraggio supremo di essere bruciato, senza la carità, senza un amore soprannaturale per il Signore, dono di Dio, non serve a nulla. Per questo è inutile lodare le grandi gesta, le opere filantropiche per cui i grandi della terra sono lodati, esaltati e forse anche remunerati in questo mondo! Senza l’amore di Dio tutto questo è nulla.

E’ Dio che sceglie il momento opportuno per manifestarsi alle anime, come successe a Zaccheo che fu scelto da Gesù per essere ospite a casa sua (Cf. Lc 19, 5); o la peccatrice che fu portata davanti a Gesù per esser lapidata. Il Signore la scelse per farle assaporare la gioia del perdono. Neanche’io ti condanno … va’ e non peccare più (Gv 8, 11).

Ma il fariseo si è eletto da solo. Non ha aspettato l’elezione di Dio. Egli si fa i conti in tasca e conclude da solo di essere un grande santo in grado di giudicare gli altri.

Il pubblicano, fallito davanti agli uomini ma non davanti a Dio, si riconosce per quel che è, un peccatore che cerca misericordia: la carità è paziente, è benigna … non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse … non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità (1Cor 13, 4-6). Non c’è che dire: il pubblicano rientra pienamente nella definizione di carità che fa l’Apostolo Paolo nella 1° Lettera ai Corinzi.

Il pubblicano non si vanta, perché si batte il petto davanti a Dio. Non manca di rispetto, perché non accusa nessuno ma si preoccupa del proprio stato interno. Non cerca il proprio interesse, perché non cerca lodi: chiede intimamente il perdono. Infine, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità. Il fariseo gode dell’ingiustizia, perché ama disprezzare gli altri benché nessuno sia arbitro del giudizio ultimo sull’uomo se non Dio. Il pubblicano si compiace della verità, perché sa che la salvezza viene da Dio e non dalle opere umane. La salvezza è principalmente una Grazia che bisogna ogni momento implorare.

La Santa Vergine, nella sua assoluta purezza, si chiedeva che senso avesse un tale saluto (Piena di Grazia): se era un inganno propinato dal demonio per la tentazione dell’orgoglio oppure la lode perenne di Dio per chi accoglie immancabilmente la Grazia.

di P. Luca M. Genovese

Fonte: Settimanale di P.Pio

 

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