Sabato 16 aprile, dopo la pausa per le festività Pasquali, sono ripresi gli appuntamenti del corso biblico presso la chiesa di Santo Spirito con il quattordicesimo incontro.
Dopo aver approfondito l’esegesi della parabola del samaritano, tanto ricca di sfumature e di significati anche per il nostro tempo, all’inizio del capitolo undicesimo – quello nel quale c’è l’insegnamento sulla preghiera – troviamo Gesù assorto a pregare. In più occasioni abbiamo già avuto modo di dire che un aspetto distintivo del vangelo di Luca è che Gesù, nei momenti fondamentali della sua missione, prega, e la sua preghiera ispira tanto la preghiera dei discepoli e dei seguaci, quanto la sua azione.
Quando ha finito di pregare, un non meglio specificato discepolo (che rappresenta un qualsiasi cristiano, e quindi anche ognuno noi) gli chiede di insegnar loro come si prega. L’invito, per noi oggi, è quello di capire come pregare: non solo con le parole, ma anche con le azioni, con i gesti, con le posture del corpo, con i pensieri. Luca ci dice che la preghiera del cristiano trova la sua radice proprio in Gesù.
Questi risponde: “Quando pregate, dite”. Non si tratta di un invito generico a pregare, o di qualcosa per i momenti in cui non si ha di meglio da fare: è un imperativo, “dite”. La preghiera che leggiamo in Luca è più breve rispetto a quella che si ritrova in Matteo. Probabilmente la differenza di redazione dipende non tanto dall’esattezza o meno delle parole che vengono riportate, quanto piuttosto dall’ambiente culturale ai quali i rispettivi autori indirizzavano i loro scritti.
La preghiera comincia con “Padre”, vocativo che conferisce il senso a tutto il resto. L’ebraico abbà potrebbe essere tradotto anche con “papà”, proprio a intendere la relazione filiale, fatta di fiducia e libertà, che bisogna instaurare con Dio. Al Padre bisogna chiedere di darci il dono che ci permettere di vivere da figlio e da fratello, piuttosto che chiedere cose materiali o che soddisfino i nostri interessi concreti.
La preghiera non è né una formula magica (come generalmente i più pensano, finalizzata a piegare la relazione con Dio affinché esaudisca le nostre richieste), né una filastrocca da ripetere a cantilena. Essa è il segno della volontà del discepolo di mettersi alla sequela di Cristo, aprendosi all’amore totale di Dio, per chiedere a lui il dono vero, che, come Gesù fa capire alla fine del capitolo, è quello di avere lo Spirito, affinché questi possa operare nella nostra vita e poter vivere in pienezza la relazione con Dio.
Altresì, con Gesù arriva anche il perdono dei peccati. Il perdono è l’atto salvifico della croce: è una nuova comunione con il Padre. Tuttavia, il ricevimento del perdono per le nostre azioni è vincolato dalla giustificazione che noi stessi diamo alle azioni dei nostri fratelli (non a caso Gesù dice: “perdona i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a quelli che hanno torti verso di noi”. Insomma, bisogna vivere il perdono verso il prossimo, in quanto perdonati da Dio.
Per meglio illustrare le parole del “Padre nostro”, e per far comprendere che la preghiera va vissuta nelle azioni oltre che nelle parole, Luca fa seguire due parabole che illustrano il giusto atteggiamento del discepolo in preghiera. Si tratta di due racconti che prendono spunto dal modo di comportarsi dell’amico verso l’altro amico e del padre verso il figlio, a conclusione dei quali Gesù esplicita qual è il “pane” da chiedere con la preghiera, e cioè lo Spirito Santo.
Quale sia il fine ultimo della preghiera è spiegato, in qualche modo, anche con l’episodio che inizia al versetto 27 del capitolo undici. Una donna dalla folla grida a Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato”. A quella Gesù replica: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”. La vera beatitudine è, dunque, quella di chi persevera nell’ascolto e nella pratica della parola di Dio: ritorna lo stretto legame tra la preghiera e l’azione. Di questa beatitudine ovviamente è parte anche la madre di Gesù (secondo la mentalità orientale, rivolgere una beatitudine alla madre era segno per esaltare il figlio), la quale accoglie e conserva la parola del figlio.
Non a caso a questo breve dialogo segue una dura requisitoria contro la generazione malvagia che chiede segni, e contro la fede “di facciata” di farisei e scribi. La purezza autentica davanti a Dio non è data dalla reiterazione di riti e tradizioni, bensì dalla coscienza interiore con la quale si vive la propria relazione con la parola e col Padre. Perciò, la parola va letta, interiorizzata e vissuta integralmente, dall’inizio alla fine. Non si può certo aprire la Bibbia a caso e cercare risposte alle nostre domande! Sarebbe un atteggiamento sicuramente riduttivo, che tenderebbe, come detto sopra, a piegare Dio alla nostra volontà. Piuttosto si deve leggere la parola di Dio con ordine, discernimento e voglia di comprendere, e in maniera quotidiana: “sarà lo Spirito santo ad insegnare in quel momento ciò che conviene dire o fare” (12, 12).
Il prossimo incontro del corso biblico si terrà sabato 23 aprile alle ore 18,30.
Vincenzo Ruggiero Perrino