Sabato 12 novembre, si è tenuto il secondo incontro del corso biblico presso la chiesa di Santo Spirito, proseguendo l’indagine su quei passi biblici in cui è maggiormente evidente la predilezione di Dio per i poveri e gli ultimi.
Il passo analizzato è quello ai versetti 7-10 del terzo capitolo dell’Esodo.
Contestualizziamo il brano. Com’è noto, l’Esodo racconta l’uscita del popolo dall’Egitto. È, cioè, il libro biblico del cammino del popolo d’Israele verso la terra promessa, verso la loro casa, cioè verso la salvezza e la protezione. Non a caso, anche oggi, il “ritornare a casa”, il “rientrare a casa” vengono sempre intesi come un andare verso un luogo in cui ci si sente protetti e tranquilli, dove magari ci sono gli affetti familiari e dove si hanno le proprie cose. Dunque, il popolo d’Israele compie il suo esodo verso la casa della vita, e in questo viaggio è guidato da Mosè.
Non è superfluo ricordare che, però, il popolo d’Israele era andato spontaneamente in Egitto. Si era trattato di una libera scelta, nata da una necessità e risalente ad un atto di cattiveria (la storia di Giuseppe venduto dai suoi fratelli). Inizialmente il rapporto tra egizi ed ebrei era stato di natura pacifica. Solo in un secondo momento il faraone, spaventato dal fatto che numericamente gli ebrei stavano diventando molti di più degli egizi, decide di muovere guerra e di ridurre in schiavitù coloro che fino a poco prima erano come fratelli.
Anche qui – e in particolare nella vicenda di Mosè – torna il tema della lotta fratricida che era al centro della storia di Caino e Abele, solo che qui i due “fratelli” sono due popoli. Bisogna notare che l’avversione degli egizi verso gli ebrei nasce dalla paura. Paura che poi genera rabbia, incomprensioni, ostilità, fino a sfociare in un vero e proprio rancore e odio. Infatti, anche per noi oggi, il motore delle nostre reazioni più istintive è proprio la paura dell’altro: una volta perduto di vista il senso del fare comunità e dell’essere fratelli l’uno per l’altro, è inevitabile che prenda il sopravvento la paura dell’altro con tutte le conseguenze del caso.
La schiavitù del popolo d’Israele in Egitto dura quattrocento anni, numero evidentemente simbolico. Quattrocento è il risultato della moltiplicazione di quaranta e dieci. Nella Bibbia “quaranta” è il numero che indica il tempo della preparazione e della prova, mentre “dieci” è il numero dell’azione di Dio. Quindi alla schiavitù ci si sottrae per grazia di Dio, che nuovamente indica la via della salvezza al popolo che aveva preferito porre se stesso al centro della proprio vita, anziché Dio stesso.
Per compiere quest’opera salvifica Dio sceglie Mosè. Questi, al pari di altre figure scelte da Dio (come per esempio Paolo), non era proprio quello che definiremmo uno stinco di santo. Era una persona debole – non a caso anche balbuziente – e piena di difetti e dalla condotta discutibile. Ma, attraverso l’azione salvifica di Dio, anche la debolezza diventa un richiamo all’umiltà, al servizio, al custodirsi, e da essa può nascere la salvezza.
Dunque, nel passo esaminato, Dio, nel roveto, affida a Mosè una missione: liberare il suo popolo, del quale Egli conosce le sofferenze. Anche qui il verbo “conoscere”, come altrove nella Bibbia, indica una relazione intima: Dio è intimamente partecipe delle sofferenze e delle angosce del suo popolo. Benché nel disegno di Dio egizi e ebrei sono fratelli, essi hanno contravvenuto a questa volontà divina, e gli uni hanno reso schiavi gli altri. Perciò, Dio interviene per riportare tutto all’ordine iniziale. Tuttavia, anche dopo la liberazione il popolo di Israele non capirà la volontà di Dio e sceglierà nuovamente di agire in maniera difforme.
Tutto ciò, risponde alle domande che ancora oggi noi ci poniamo: “Dio interviene nella mia vita?”, “Mi aiuta con i miei problemi?”, “Mi abbandona al mio destino?”. Ecco: Dio non abbandona, ma piuttosto indica la strada giusta, che è poi compito dell’uomo intraprendere, in accordo e in comunione con i suoi fratelli. Piuttosto è il popolo (cioè anche noi oggi) che si sente abbandonato, perché non è disposto a fare la volontà di Dio, dal momento che vorrebbe che sia Dio a fare la volontà degli uomini.
Gli ebrei restano quarant’anni nel deserto prima di giungere alla terra promessa. Di questi eventi essi fanno continuamente memoria, una qualità che il mondo di oggi tende a sottovalutare o a dimenticare, preso com’è da tanti congegni elettronici e virtuali che sopperiscono alla memoria umana. Invece, la memoria di chi si è stati è fondamentale per capire chi si è oggi e dove si sta andando nella propria vita.
Vincenzo Ruggiero Perrino