Il Serpente prudente – N. 41

“Viva la Rivoluzione!”

Durante questo mese di ottobre che è iniziato ieri, ricorre un anniversario – più precisamente un centenario – di una certa importanza storica. Infatti, nell’ottobre del 1917 ebbe luogo la rivoluzione comunista in Russia, evento che grosso modo ha finito per condizionare lo svolgimento storico dell’intero secolo, più profondamente di altri “ismi”.

È noto che l’intera storia umana è piena di sommos­se e di rivolte popolari, che però gli storici si guardano bene dal chiamare “rivo­luzioni”, dal momento che erano carenti di un progetto finale. Insomma erano esplosioni di rabbia e violenza, sull’onda di qualche accadimento occasionale. Tant’è che venivano abbastanza velocemente sedate e represse con pari violenza e brutalità. Altrettanto numerose sono le date che registrano colpi di Stato e di rivolte di palazzo, che però nemmeno possiamo chiamare “rivoluzioni”, poiché sono il frutto dell’ideazione e dell’azione di pochi.

Dunque, per “rivoluzione” dobbiamo intendere una sollevazione popolare, sorretta da un ideale che mira all’instaurazione di un nuovo ordine sociale, economico e politico. Sostanzialmente, la vera rivoluzione è un insieme circoscritto di eventi rivoluzionari: l’attacco dal basso al potere costituito, una sequela di atti di forza e di violenze contro gli esponenti e i sodali di quel potere, e infi­ne la ristrutturazione del sistema su basi diverse.

I marxisti – che pure partivano da condivisibili intenzioni di giustizia sociale – aggiunsero due corollari al generale concetto sopra descritto di “rivoluzione”. Il primo corollario, che è in realtà più un vezzo che altro, postula che se una rivoluzione non è “di sinistra”, non è vera rivoluzione. Per quell’atteggiamento di buonismo radical chic, tipico soprattutto della sinistra di casa nostra, nessuno si è mai azzardato dal dire che le rivoluzioni nei paesi dell’Est, che hanno abbattuto i regimi comunisti, era­no controrivoluzioni reaziona­rie. Il secondo corollario – e qui è stato l’errore genetico che ha poi determinato il triste epilogo della loro rivoluzione – afferma che la rivoluzione non è solo capovolgimento politico, ma anche instaurazione di un nuovo ordine economico e dunque sociale. Il che può sembrare una cosa non solo sensata ma anche più appagante.

Purtroppo, il problema è che per far questo, la rivoluzione viene snaturata: non è più un evento che termina con la sconfitta del tiranno, ma è qualcosa che dura un tempo imprecisato, dal momento che dovendo rifare tutto, uomini e donne compresi, può dover durare molto più di qualche settimana di guerriglia. Attenzione: è ovvio che da una rivoluzione debba nascere anche un nuovo sistema socio-economico (e ci mancherebbe pure che dopo aver cacciato il tiranno le cose restino tale e quale a prima); il punto è che, durando sempre il clima rivoluzionario, questo nuovo sistema sociale viene imposto con il metodo rivoluzionario, ovvero con la forza e la violenza, determinando l’equazione “rivoluzione continua” = “dittatura continua”. Non a caso, la dittatura del proletariato insediatasi in Unione Sovietica, o nella Cina maoista, o negli altri stati comunisti doveva essere una fase di transizione dallo stato socialista a quello comunista (che in sostanza significava la dissoluzione stessa dello stato).

Perciò la parte più importante di una rivoluzione, non è tanto l’atto rivoluzionario in sé (che può, pur nella sua incandescenza e violenza, essere una cosa buona), ma ciò che viene realizzato dopo la rivoluzione. La Rivoluzione francese aveva rovesciato l’assolutismo monar­chico; il dopo rivoluzione avrebbe dovuto realizzare il progetto e gli ideali dell’illuminismo; la tensione alla rivoluzione continua creò il Terrore, che finì per uccidere gli stessi padri di quella Rivoluzione. Invece i moti liberali della prima metà dell’Ottocento, benché furono di portata ben più modesta, riuscirono a realizzare il progetto di stati costituzionali, che garantivano (almeno sulla carta) la libertà ai cittadini.

Perché parlare di rivoluzione e di “ismi” in una rubrica come questa? È molto semplice: anche il cristiano è chiamato a compiere una rivoluzione, tanto in riferimento alla propria individualità, quanto in riferimento alla società in cui vive. E perciò è bene che anche il cristiano sappia e comprenda cosa significhi veramente “rivoluzione”. La predicazione di Gesù configura essa stessa un evento rivoluzionario, schierata com’era in aperta contraddizione con la mentalità farisaica del tempo, al punto da costargli la vita.

Non c’è passo evangelico che non presupponga appunto una conversione, ovvero un abbandonare la vecchia strada fatta di piccole e grandi ipocrisie, di trascuratezza verso la parola e la volontà di Dio, e incamminarsi sulla via dell’autenticità, del cogliere l’essenziale.

E, manco a farlo apposta, l’origine etimologica di “conversione” è appunto “rivolgimento”, “cambiamento”.

Volendo limitare il discorso al vangelo ascoltato ieri in chiesa, il progetto “rivoluzionario” di Gesù è spiegato in maniera chiara. Soltanto chi non vuol capire non lo capirà. In realtà, l’invito è quello di dare spessore e senso alle scelte e alle azioni che compiamo.

Un padre invita i figli ad andare a lavorare nel suo campo: il primo esprime riluttanza, e rifiuta a parole l’invito. «Ma poi», osserva Gesù «si pentì e vi andò»; il secondo figlio, invece, risponde all’invito del padre con pronta disponibilità, ma solo a parole. Il suo è un «sì» proclamato prontamente e ad alta voce, che di fatto però si traduce in un «no».

Dunque, la sola manifestazione verbale di una scelta adesiva alla volontà del Padre non è né sufficiente né significativa. In altre parole, Dio non ha bisogno di chiacchiere, ma di fatti: e sui fatti vengono giudicati i due figli. Fatti che presuppongono appunto un approccio rivoluzionario alla loro scelta iniziale. Compiuto l’atto “rivoluzionario”, ci si deve poi comportare di conseguenza.

E qui, il vangelo introduce una seconda riflessione, con Gesù che stigmatizza l’arroganza dei capi dei sacerdoti e degli anziani del popolo, convinti che la salvezza o la perdizione siano un fatto quasi “ereditario”. Costoro vengono rimproverati perché convinti che la sola adesione formale ad una tradizione religiosa, senza alcun evento che rivoluzioni davvero la loro vita, possa essere garanzia di salvezza.

Invece, da noi è richiesto un atto di rivoluzione (o di conversione se si preferisce usare un termine meno “bellicoso”). E infatti, Gesù è perentorio: «Le prostitute e i pubblicani vi passano davanti nel regno di Dio». E questo è possibile perché, riconosciute le ferite del peccato nella propria vita, prostitute e pubblicani accolgono l’invito a convertirsi e a cambiare radicalmente la loro condotta di vita, allontanandosi dalle colpe commesse.

Dunque, siamo tutti chiamati a compiere una rivoluzione quotidiana nella nostra vita. Ovviamente, non imbracciando un fucile e andando all’assalto del palazzo, ma abbracciando finalmente quell’autenticità, che spesso perdiamo di vista, abbacinati dalle mille inutili cose di cui amiamo circondarci, convinti che siano indispensabili e invece sono solo superflue.

Vincenzo Ruggiero Perrino

 

 

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