L’esteso panorama dei primi trent’anni del Novecento è fin troppo ricco di ismi, che vollero in qualche modo affermare il senso di un sostanziale continuo rinnovamento del teatro. Tuttavia lo studio degli ismi non è sufficiente per ripercorrere e ridefinire per intero la mappa del teatro e delle tensioni che lo attraversano, né basta a stabilire e valutare in particolare i problemi e i valori «materiali» dello spettacolo. Questo problema di ordine generale, estensibile a tutto l’arco europeo della rivoluzione della scena del Novecento, acquista una sua peculiare specificità in Italia, dove l’assenza di una radicale e vasta opera di rifondazione dell’idea di teatro, in una condizione di provincialismo talvolta persino esasperato, ha fatto da alibi per una attenzione per così dire esclusiva al Futurismo e agli artisti ad esso direttamente o indirettamente collegati, e ai protagonisti dello sperimentalismo e del rinnovamento nostrano, come i frusinati fratelli Bragaglia.
Il Novecento si apre con le esperienze ancora in corso di Lugné-Poe, di Copeau e Stanislavskij, ma all’orizzonte avanzano le nuove sperimentazioni, i cui protagonisti lasciano segni indelebili nella cultura del secolo. Mentre Europa e Occidente si confrontano con la Rivoluzione d’Ottobre, il conflitto mondiale e la diffusa instabilità economica, il teatro entra sempre di più in relazione con la società, promuovendo innovativi modelli comunicativi ed ideologici.
Craig ed Appia conducono indipendentemente la ricerca per un nuovo approccio al teatro, invitando i contemporanei a guardare al teatro in quanto arte autonoma, a rivedere la sua funzione nella società, e a riconsiderare i rapporti tra gli elementi che costituiscono il fatto teatrale.
Negli anni che segnano il passaggio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, la vita teatrale europea fu caratterizzata da una grande ricchezza di iniziative e da una notevole vivacità intellettuale che produsse come risultato profondi mutamenti nel mondo della scena. Nei testi teatrali e in quelli teorici scritti in questo periodo, l’elemento comune che si manifesta in modo più evidente è la violenta reazione antinaturalistica che veicola una più profonda contestazione dei modelli sociali e morali espressi dalla società della Belle Époque con il rifiuto della società borghese che già si esprimeva nell’Ubu Roi di Jarry (1896), opera antesignana del rinnovamento teatrale del Novecento, anche se questo testo costituisce una sorta di problematica anticipazione delle strade che percorrerà in seguito il teatro. La geniale trovata di Jarry, la creazione di un personaggio che non è un uomo ma un fantoccio parodistico ed eccessivo, inaugura una tendenza che toglie all’individuo contemporaneo, al borghese razionale, il primato della scena affidandolo invece alla marionetta, alla maschera.
L’insofferenza anti-borghese caratterizza d’altronde tutte le opere teatrali rivoluzionarie di questo periodo; decisamente e scandalosamente anti-borghese è la prima opera di Wedekind che già nel 1891, con Risveglio di primavera, sconvolse il pubblico tedesco, sferrando un violento attacco al principio di autorità con una rappresentazione centrata sui problemi dell’adolescenza e del sesso, tematica che gli procurò non pochi guai con la censura.
L’esperienza espressionista produrrà effetti dirompenti e non solo a livello tematico: la tendenza verso l’assoluto, l’essenziale, che caratterizza quest’arte, porterà alla condensazione e alla semplificazione. Seguendo un percorso che si allontana dagli aspetti fenomenici per inseguire l’astrazione, gli autori espressionisti incentreranno i propri drammi su personaggi che non sono individui bensì caratteri generali, talvolta caricature o burattini; la tendenza all’uso di nomi generici è funzionale a questa cancellazione del soggetto individuale dalla scena.
Non si può negare, tuttavia, che il rifiuto della modalità di rappresentazione ottocentesca costituisse una posizione adottata anche da scrittori molto diversi, che operavano all’interno di un teatro più tradizionale. Un esempio può essere costituito dall’opera di Yeats il cui teatro simbolico e rituale, ambientato nell’Irlanda medievale, rifugge dalla rappresentazione mimetica, essendo l’autore convinto che ogni deviazione verso il realismo coincide con un declino dell’energia drammatica.
Inoltre, secondo i dettami simbolisti, il teatro non è più rappresentazione o descrizione del reale ma rivelazione e al contempo ricerca e decifrazione, e deve percorrere un cammino addentrandosi in uno spazio metafisico, il cui difficile accesso riduce drasticamente il pubblico, avviando un processo che porta l’arte, tutte le arti, a diventare estremamente elitarie e, in una certa misura, impopolari.
Anche il teatro russo, fortemente radicato nel naturalismo, supera quest’impostazione e subisce il fascino del simbolismo; tant’è che, pur mantenendosi ancorato a tematiche di forte impegno sociale, si orienta verso la ricerca di nuovi moduli espressivi, passando attraverso la valutazione degli elementi non verbali del teatro e la percezione dell’opera come spettacolo, e non solo come testo.
Alcune significative acquisizioni incisero in maniera determinante sul mondo della scena: le nuove tecniche di costruzione, l’uso dell’illuminazione elettrica, i progressi delle macchine teatrali, mutarono decisamente e profondamente la base materiale dello spettacolo provocando ripercussioni profonde e sostanziali sui modi di rappresentazione, su quanto veniva messo in scena e, fattore di non minore importanza, su come lo spettacolo veniva percepito dal pubblico.
A cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, in conseguenza della crisi del positivismo e del naturalismo in Europa, anche in Italia il teatro tenta di percorrere vie nuove. In ambito decadente, interessanti sono gli esperimenti drammaturgici di Gabriele D’Annunzio (1863-1938), che sviluppano alcuni temi fondamentali come la tensione vitalistica e superomistica, la sensualità orgiastica, l’esaltazione di forze primordiali come la violenza e la lussuria.
Nel campo dello sperimentalismo esasperato delle avanguardie ci introduce invece il futurismo, sviluppatosi agli inizi del Novecento con il proposito di rompere violentemente e definitivamente con la tradizione passata per proiettare l’arte nel futuro, dominato dalla velocità, dalla macchina, dalla guerra. Il teatro futurista è un teatro sintetico e violento, che produsse grande impressione all’epoca per il suo carattere provocatorio e contribuì decisamente a “svecchiare” forme drammaturgiche e moduli espressivi, rinnovando profondamente il genere. Nel 1915 furono pubblicati il Manifesto del teatro futurista sintetico, di Marinetti e Settimelli, e il Manifesto della scenografia futurista, di Prampolini, che contengono le idee fondamentali della nuova drammaturgia; esse possono essere sintetizzate nella volontà di sorprendere ad ogni costo, e di riprodurre la velocità del mondo moderno riducendo le scene ad azioni fulminee della durata di pochi secondi.
Al teatro di impostazione “classica” e romantica, incentrato sull’azione esemplare, dominato dalla figura dell’eroe e ambientato nel mondo del mito o entro grandiosi affreschi storici, Pirandello sostituisce ora un teatro di parola, in cui si agisce poco e molto invece si riflette, dominato da personaggi comuni e da figure di “inetti” e di sconfitti, ambientato in interni borghesi. Attraverso un’analisi psicologica tanto raffinata quanto dolorosa, vengono messe a nudo le contraddizioni della società borghese e la crisi dei valori tradizionali, aspetti che trovano la migliore espressione soprattutto nei personaggi femminili. Tematiche favorite sono il contrasto tra verità e menzogna, tra sogno e realtà, che tende a esplodere in conflitti violenti proprio all’interno della realtà familiare, di cui vengono messe impietosamente a nudo le ipocrisie e i vuoti formalismi.
Il regime fascista teatralizzò la vita politica, facendone una continua rappresentazione di massa (divisa, adunanze che collocano i partecipanti sotto il palcoscenico dell’oratore, applausi di approvazione, ecc). Usò gli spazi teatrali delle piazze. Nel campo culturale sono prese grandi iniziative a favore del teatro. Rinasce il teatro classico all’aperto nell’arena di Siracusa; viene fondata l’Accademia d’arte drammatica (prima scuola in Italia di regia, attori e tecnici); viene creato l’ETI (Ente Teatrale Italiano), che coordina e sovvenziona il teatro ufficiale.
Durante il ventennio fascista e dopo, parallelamente al teatro di tipo “tradizionale” si sviluppa e incontra un immenso successo lo spettacolo di varietà, di origine popolare, derivato dai music-hall inglesi e dai cabarets e café-concerts francesi. Si tratta di un teatro basato sull’abilità degli attori, con ampia parte d’improvvisazione, che nasce da un rapporto immediato e diretto col pubblico, che propone uno spettacolo comprendente canzoni, esibizioni di attori, illusionisti, spogliarelli, parodie. Il rapporto col pubblico è particolare: lo spettatore può fischiare l’attore, l’attore può aggredire lo spettatore, farlo salire sul palcoscenico (per esempio, i prestigiatori). Insomma, il Varietà è sostanzialmente uno spettacolo d’intrattenimento, rivolto a un vasto pubblico.
Infine, il grande rappresentante del teatro dialettale è il napoletano Eduardo De Filippo (1898-1984), attore, autore, regista comico e tragicomico di immenso talento. Erede della commedia dell’arte, di Pulcinella e del teatro di varietà, studia e mette in scena i rapporti dell’individuo con la famiglia, con la società e crea un tipo di disgraziato vicino al Charlot di Chaplin (Natale in casa Cupiello, Napoli milionaria, ecc.).
Cosa accadeva nel sorano nel corso del primo Novecento teatrale?
Un nome fondamentale per il teatro primo novecentesco è quello di Antonio Valente, figlio della nobildonna Cecilia Franchi e dell’ing. Vincenzo, che era stato il progettista del teatro sorano, di cui abbiamo parlato. Nacque, appunto a Sora nel 1894 in una casa sul lungoliri Rosati. Ebbe una personalità artistica multiforme, che gli permise di spaziare dalle sperimentazioni sulle scenografie teatrali alle architetture civili e religiose. I principi a cui si è ispirato seguono due linee che a volte si intersecano tra loro: nel teatro egli volle avvicinare il pubblico comune a questa arte e renderlo così più partecipe della recitazione; nelle strutture civili e religiose volle creare degli impianti in armonia con la natura.
La vicenda artistica ed umana di Antonio Valente si inserisce perfettamente nel quadro che abbiamo delineato poc’anzi, dibattendosi tra ismi di varia natura. Come scrive Giovanni Isgò:
In questa zona, nella quale difficilmente si riconoscono i rumorosi di gruppo e i teorici, si individua invece chi, pur non avendo riconosciute dalla storia le doti e la genialità del profondo innovatore, procede e progredisce senza cedere a involuzioni o accademismi, accumulando esperienze, cercando da solo l’aggiornamento, verificandolo di persona sempre a contatto diretto con la materia e con la prassi, costruendosi da sé un suo modo di fare teatro, apparentemente «poco rivoluzionario», in realtà fatto di elementi estremamente mobili e funzionali nella loro originale, «moderna» semplicità, anche se utilizzata a un certo punto per orientare, tra sublimazioni ed entusiasmi e per monopolizzare gli spettatori. E proprio qui che è possibile separare il contributo ideologico (nel senso della ideologia veicolata dalla tecnica) di chi progetta i dispositivi, ricerca e individua le tecniche teatrali come acquisizione di libertà, capacità di conoscere e di fare, dall’uso che di esso se ne fa al fine di propagandare una ideologia, questa volta politica e di regime.
Il fertile clima culturale investì anche altre zone del Basso Lazio. Infatti, nella Picinisco della prima metà del Novecento, grazie all’istituzione dell’oratorio dell’Immacolata, vennero rappresentate alcune opere, tra cui La tentazione dell’uomo (1937), per opera dell’abate Severino Venturini (che, poi, era stato il primo fautore della ristrutturazione della chiesa parrocchiale e della realizzazione del salone-teatro).
Anche le suore del Preziosissimo Sangue non vollero essere da meno, portando in scena, la vita di Sant’Agnese e di Santa Prudeziana, scritte dal suor Lucia Gugliemi, che dell’istituto religioso faceva parte.
La prima metà del Novecento vede una fervida attività teatrale anche a San Donato Val Comino, soprattutto in ambito sacro, grazie all’opera intellettuale del parroco don Cesare Gallucci, patrocinatore di rappresentazioni, la più memorabile delle quali fu una Vita di Gesù, andata in scena nel 1943 nonostante le difficoltà del conflitto mondiale allora in corso.
La popolazione di San Vittore, che com’è noto, prende il nome dal santo martire vissuto nella Milano del III-IV secolo, proprio ad un dramma incentrato sugli episodi della vita del soldato martirizzato tributò un grande successo di pubblico nel 1903. Il testo del dramma, progettato fin dagli ultimi anni dell’Ottocento, fu scritto in versi dal sacerdote don Giuseppe Spera, che insegnava a Montecassino.
L’ultimo frutto che proponiamo viene da Isola del Liri. Siamo nel 1939, e due isolani, F. Zanetti e G. Marsella danno alle stampe una Matilde di Canossa, che è un’azione storica in tre tempi con una leggenda. L’opuscolo, conservato alla Biblioteca nazionale di Firenze, comprende lo scenario dei tre tempi del dramma, nel quale si riassumono le vicende della vita di Matilde e delle sue vicissitudini tra Bonifacio e l’imperatore Arrigo III, tra l’ultimo quarto dell’XI e il principio del XII secolo. Inoltre, arricchisce il dramma una leggenda. Possiamo quasi definirla una sorta di spin off ante litteram, nel quale, tra la solitudine montuosa di Canossa, tra suoni di corni e di caccia, si racconta di un episodio nel quale il Papa, a fronte di un prodigio, recide a Matilde i biondi capelli e la ordina sacerdote. Poi, man mano che ella procede nella celebrazione di una messa, un turbine spaventoso di vento, lampi e pioggia si scatena, tanto che, al momento della consacrazione, un fulmine colpisce la contessa che cade incenerita al suolo, mentre un altro fulmine abbatte lo stendardo della sua casata sulla torre del castello.
Vincenzo Ruggiero Perrino