Il Teatro Nel Sorano Nel Settecento

In generale, possiamo dire che il Settecento è stato un’epoca di fiduciosa apertura alla ricerca: il Barocco del secolo precedente viene superato sulla scorta dei valori positivi dell’Arcadia prima e dell’Illuminismo dopo. Il teatro sperimenta tutti i generi: mentre la tragedia mantiene per diverso tempo i legami con i modelli seicenteschi, la commedia di intreccio si evolve nella commedia di carattere. L’affermazione definitiva della classe borghese e il cosmopolitismo, che permette la circolazione e la traduzione dei maggiori autori drammatici del periodo, si rispecchiano nelle pratiche sceniche.

L’Italia brilla per il talento comico di Carlo Goldoni e per la passione tragica di Vittorio Alfieri. Il primo vivifica le ormai esaurite istanze della Commedia dell’Arte, aprendo la strada a una commedia priva di urgenze politiche, ma che racconta con estrema profondità la realtà borghese. Il secondo, invece, interviene sulla tragedia con una consapevole vis polemica, che riflette gli ideali dell’Illuminismo.

Apostolo Zeno, Pietro Metastasio e Raniero de’ Calzabigi sono i promotori di quella revisione che consegnerà il melodramma alla sua forma contemporanea. Se Zeno si rivolge al modello classico, mantenendo le unità di azione e tempo, Metastasio interviene liberandolo dai principi aristotelici e suddividendo in testo in arie e recitativi. Fondamentale la posizione di de’ Calzabigi: alla coerenza dei caratteri deve fare riscontro la coerenza della struttura.

Il teatro europeo si inserisce a pieno titolo nella modalità di comunicazione di intellettuali e filosofi, come dimostrano la trattatistica di Voltaire e Diderot, nonché le opere di Beaumarchais. Grazie alle opere di costoro soffia una brezza di novità. Il pensiero degli illuministi si concretizza in opere di grande impatto. Nasce infatti il concetto di “dramma”, a cavallo tra commedia e tragedia, anticipato dalla comédie larmoyante, che spopola nella Francia della metà del XVIII secolo, poiché risponde a un’esigenza drammaturgica di coinvolgimento emotivo del pubblico.

La Germania colma il divario che la separa dal resto d’Europa attraverso la creazione di teatri stabili e gli apporti teorici di Lessing e Goethe, che, sul fronte drammaturgico, danno vita al periodo creativo noto come classicismo di Weimar. La sudditanza al modello francese viene presto superata dalla ricerca di un canone che esprima la voce degli intellettuali tedeschi. Il teatro partecipa a questa emancipazione attraverso un modello di edificio stabile finanziato dallo Stato. Un primo tentativo lo si attua per mezzo dello “Sturm und Drang”, i cui intellettuali fanno riferimento a Voltaire, ma soprattutto a Rosseau, con un substrato di cupo ribellismo e violenza interiore, prima ancora che manifesta.

L’Inghilterra, nonostante l’ingerenza della politica, ospita una fiorente schiera di autori, perfeziona il modello produttivo, e diploma grandi interpreti: Thomas Betterton, James Quinn, Charles Macklin, e soprattutto David Garrick, che oppone la naturalezza della recitazione che gli derivava dallo studio di situazioni e accadimenti reali all’enfasi e piattezza declamatoria allora dominanti. Inoltre, la ripresa del teatro in Inghilterra, dopo la fine del puritanesimo, passa anche e soprattutto attraverso forme drammatiche minori: il pantomime (che unisce elementi mutuati da Commedia dell’Arte, farsa, satira sull’attualità e storie tratte dalla mitologia), la ballad opera (in opposizione alla lirica italiana, propone storie ambientate tra personaggi delle classi inferiori, spesso criminali o emarginati, alternando parti recitate a brevi canoni), il burlesque (spettacolo satirico senza parti cantate).

Sul fronte squisitamente scenico, se in epoca barocca era stato l’universo prospettico della scena, con le sue magie illusionistiche e meccaniche, a focalizzare l’attenzione teorica e la sperimentazione pratica, permeando di sé l’immaginario letterario e artistico, nel Settecento la riflessione critica sembra prediligere la problematica dell’attore, il cui mestiere ha ormai acquisito l’attributo di “arte” ed appare come il nodo cruciale della comunicazione estetica teatrale. Avendo presente la funzione di trait d’union che l’attore esplica fra l’autore e lo spettatore, si persegue l’analisi di come avviene la trasmissione del testo letterario, di come si producono le reazioni del pubblico, di cosa in fin dei conti succede nel momento magico e irripetibile della comunicazione teatrale.

Cosa accadeva nel sorano nel corso del Settecento teatrale?

Procedendo in ordine cronologico, diciamo che innanzitutto, per le nozze di Vincenzo Giustiniani, principe di Bassano, con Maria Costanza Buoncompagni, figlia di Gregorio, nel 1706 gli Accademici Erranti diedero nel teatro del palazzo di Bassano una rappresentazione de Il lino generoso, o vero La tirannide vinta dal valore, melodramma di Giacomo Badiale, promotore dell’Accademia del Pellegrini di Roma, rappresentata e pubblicata una prima volta nel 1699. Come si afferma nella premessa, l’azione racconta di un re che smette i panni del “padre”, per vestire quelli del “tiranno”: l’insegnamento che ne viene è che bisogna sempre avere una giusta misura in tutte le imprese. Se Il lino generoso era stato indirizzato principalmente alla signora Maria Costanza, un’altra opera venne invece dedicata al di lei sposo: Il maritaggio d’amore, epitalamo per musica, messo in scena a palazzo Giustiniani, a cura della medesima Accademia, e stampato nel 1705. Si tratta di una riscrittura della favola di Amore e Psiche già immortalata da Apuleio.

Durante il XVI sec., ad Alvito, nel palazzo ducale era stato edificato un teatro di corte, nel quale venivano dati spettacoli musicali, coreografici e drammatici per il diletto della corte e dei cortigiani. Qui, è interessante segnalare l’attività di ballerino del duca Francesco Gallio. Costui, infatti, in veste di danzatore e insieme con altri rappresentanti dell’alta nobiltà del suo tempo, partecipò, nel 1721 ad una straordinaria rappresentazione presso il collegio Clementino di Roma. Per l’occasione fu organizzata una Festa accademica di lettere e d’arme, sotto gli auspici del principe e cardinale di S. Susanna, Giuseppe Pereira De La Cerda, consigliere di stato dei reali di Portogallo. La festa, della quale l’opuscolo riporta un succinto, ma esaustivo, “Ragguaglio”, fu animata dal fiore della nobiltà meridionale legata in qualche modo alla corona portoghese, e, oltre ad una fastosa e magnificente scenografia (che doveva richiamare la Gloria e l’Onore della nobile casata reale), comprese sinfonie, orazioni, recitazione di componimenti poetici in italiano e in latino, balli a solo e in gruppi, tornei di spade e picche, giochi di bandiere, per concludersi poi con una cantata a tre voci di impianto allegorico in cui compaiono le personificazioni della nobilità, della religione e della virtù.

Ancora per tutto il corso del Settecento i Buoncompagni furono dedicatari di opere a stampa. Risale al 1718 il dramma per musica Il Massimo Puppieno, dedicato a Maria Giulia Buoncompagni Ottoboni, duchessa di Fiano. A donna Anna Buoncompagni Salviati, viene dedicato il dramma per musica Lucio Papirio, andato in scena al teatro di Pesaro nel carnevale del 1721. Invece, è del 1730 L’Elenia, dedicato a Teresa Buoncompagni Barberini, principessa di Palestrina: questo dramma, che ripercorre le mitiche vicende di Teseo e Arianna, si segnala per essere opera di una donna, Luisa Bergalli, cosa piuttosto insolita nel panorama dell’epoca. Ad un’altra Buoncompagni, la principessa Ippolita Buoncompagni Ludovisi Rezzonico, viene dedicato L’Americano, composto di intermezzi per musica a quattro voci, che fu rappresentato nel Teatro alla Valle appartenente alla famiglia Capranica nel carnevale dell’anno 1772. L’anno prima, ancora un’opera di intermezzi a quattro voci, cantata nel teatro della Pace in occasione del Carnevale, viene dedicata alla principessa Ippolita La donna vendicativa e l’erudito spropositato.

A Isola di Sora nacque e fu intellettualmente attivo Gaetano Marsella, personaggio, che il pur completo Dizionario storico biografico del Lazio si limita a descrivere come «letterato […] autore del dramma in musica Il Pausania […] dedicato a Carlo di Borbone re delle Due Sicilie». In effetti, consultando i cataloghi delle biblioteche italiane è reperibile unicamente questo suo dramma per musica, dato alle stampe nel 1738, presso la stamperia di Stefano Abbate di Napoli, intitolato appunto Pausania (l’unica copia attualmente reperibile è conservata presso la Biblioteca dell’Abbazia di Casamari). È un’opera della quale è impossibile stabilire il destino pubblico (se sia stata effettivamente musicata e poi portata in scena almeno una volta), benché dalla premessa al testo è chiaro che quella era il primo lavoro che Marsella pubblicava (alla quale fecero seguito pochi altri sonetti apparsi in miscellanee d’occasione e otto lettere di un carteggio con Ludovico Antonio Muratori). In ogni caso il Pausania aderisce perfettamente alle prescrizioni che il Muratori aveva formulato per restaurare l’«antica dignità» della tragedia (tant’è che come lo stesso Marsella afferma nei componimenti che accompagnano il dramma, l’intendimento suo è quello di offrire al sudditi del re, una dilettevole scuola di buoni costumi e una lezione morale sull’esempio di un eroe antico).

Nel 1757, “l’umilissimo, obbligatissimo servo e suddito” Filippo Cossa pubblica le Rime per le felicissime nozze dell’eccellentissimo signore don Antonio Buoncompagni Ludovisi duca d’Arce coll’eccellentissima signora D. Giacinta Orsini dei duchi di Gravina. Si tratta di un opuscolo nel quale sono raccolti sonetti, canzoni e finanche un carme in latino, scritti e sicuramente pubblicamente declamati in occasione delle nozze. Che per certo nacquero sotto il segno di una comunanza anche intellettuale, atteso l’impegno culturale della famiglia Buoncompagni, e considerata anche la circostanza che la duchessa Orsini partecipava all’Arcadia con il nome di Euridice Ajacidenze.

Risale alla metà del Settecento (benché il libretto relativo non rechi alcuna data), il resoconto di un saggio letterario, che fu dato in pubblico per tre giorni dagli scolari delle classi prima e seconda del collegio dei gesuiti di Sora. Il periodo è deducibile dal fatto che la triplice performance pubblica fu dedicata al vescovo Antonio Correale (che della città fu vescovo tra il 1748 e il 1764). Questa “tre giorni” di recite propose al pubblico nella prima giornata opere in prosa (per lo più dissertazioni che trattavano il «miglior modo di comporre latinamente negli stili oratorio popolare, oratorio accademico, istorico, epistolare»); nella seconda giornata opere poetiche (con declamazioni da Virgilio, Orazio, Catullo, Tibullo e Ovidio); nella terza un saggio di composizione, inframmezzato a recite di componimenti poetici e di retorica.

Quando Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, sposa Maria Giuseppe d’Austria, nel 1767, il maestro di cappella dell’Elettoral Corte di Sassonia, il sig. Adolfo Hasse, detto il Sassone, compone la musica della festa teatrale Partenope, su testo di Pietro Metastasio, che fu rappresentata nel Burgtheater di Vienna. Il libretto scenico, stampato quello stesso anno quale strenna natalizia, venne dedicato a Vittoria Sforza Buoncompagni Ludovisi, duchessa di Arce.

Un altro nome del Settecento sorano è quello di Antonio Jerocades, nato a Parghelia, piccolo centro vicino Tropea, in quella che allora era chiamata Calabria Ulteriore. Proposto per una cattedra nel Collegio Tuziano di Sora, si recò nel ducato sorano per insegnare filosofia e belle lettere. Nei ritagli di tempo che gli lasciava il suo lavoro scolastico, compose un dramma intitolato Sofronia ed Olindo, che fece rappresentare dagli stessi suoi discepoli, per loro divertimento, durante le festività di Carnevale del 1769. Questo dramma venne poi pubblicato a Messina nel 1777, insieme con la cantata Il consiglio dei numi. Nel gennaio 1770, Jerocades, incoraggiato forse dai buoni risultati scenici ottenuti dai suoi allievi con il Sofronia e Olindo, compose un altro dramma, Il ritorno di Ulisse, affinché venisse recitato dai convittori durante il carnevale di quell’anno. Era d’uso infatti, che i frequentatori di questi collegi religiosi si dilettassero durante le festività carnevalesche nella messinscena di testi teatrali. Scrive il Brouwer: «Il manoscritto andò in giro per la città: alcuni lo lodavano come utile ed onesto, altri lo trovavano invece troppo serio. Allora l’autore, che non voleva privare i suoi scolari del divertimento, pel quale aveva già chiesto ed ottenuto dall’autorità locale il permesso necessario, scrisse due intermezzi comici; di questi, uno fu causa troppo meschina d’un incredibile diavoletto». L’intermezzo in questione si intitolava Pulcinella da Quacquero, che causò tanti e tali  problemi, che l’autore fu processato e costretto a lasciare il ducato sorano e a peregrinare in giro per l’Italia. In ogni caso, il processo a Jerocades non ne spegne assolutamente la voce. Anzi, in nome di quel “nuovo” da cui Pulcinella si sentiva irrimediabilmente attratto, egli diverrà nel volgere di poco tra i più convinti alfieri del “nuovo” credo massonico, alla cui diffusione dedicherà tutte le sue energie, fino alla morte, avvenuta nel 1805.

Presso il seminario vescovile della città di Sora, in occasione del Carnevale del 1775, i convittori portano in scena una Sacra tragedia, incentrata sul culto e la devozione alla santa patrona della città, S. Restituta, recentemente riportata alla luce da carteggi privati, e data alle stampe da Giovanni De Vita. Probabile opera dell’arciprete Bartolomeo Baldassarri – che la scrisse in versi endecasillabi sciolti (per la verità di metrica non rigorosissima, e dalla forma non sempre elegantissima) –, la Sacra tragedia è ricordata dal canonico Crescenzo Marsella, che la faceva discendere, almeno nelle sue linee essenziali dalla Passio di Santa Restituta. La leggenda del martirio della santa, e di conseguenza la tragedia inscenata dai seminaristi, si sofferma su due personaggi principali: Restituta e il giovane Cirillo, che la santa guarì arrivando a Sora. Più libera dovette essere l’ispirazione dell’autore e degli attori con riguardo agli altri due personaggi importanti della storia: Agazio, il proconsole della città, e Amasio, che della città fu il primo vescovo.

Nel 1775, ad Arpino, nel palazzo dei signori di Belmonte, in occasione del “faustissimo esaltamento alla sacra Porpora dell’eccellentissimo signore d. Ignazio Buoncompagni Lodovisi de’ duchi di Sora, e principi di Piombino”, viene rappresentata la festa teatrale Il pomo d’oro tolto alla Bellezza, e reso alla Virtù, la cui musica venne composta dal celebre Gennaro Rava di Napoli. Questo Pomo d’oro rievoca la mitica storia della contesa tra Giunone, Pallade e Venere, su chi tra esse dovesse meritare il frutto d’oro – la stessa storia che è il sostanziale antefatto della guerra di Troia e delle storie omeriche. Infatti, la scena si finge ambientata sulle “deliziose rive di Cipro con altari dedicati a Venere, sparsi di fiori, e fumanti d’incenzo”. Ovviamente, trattandosi di un’operetta celebrativa di un preciso personaggio, la conclusione è decisamente diversa da quella della storia tramandata dall’antichità. Il pomo d’oro non viene assegnato ad alcuna divinità, ma l’opera si chiude con questi versi detti da Amore: «A Te dunque il gran Pomo / eccelso Ignazio, e grande, / or si serba, e destina, e a te si rende. / Egli fu un tempo, è vero, / premio a rara beltade; or con più dritto / fassi premio, e corona / a virtù troppo eccelsa, e troppo rara. / Sembra picciolo il don; ma è dono il sai / Ben da tre Numi un tempo / e bramato, e conteso. / Or benigno l’accetta: / Che alfin lo porge è Amore; penserà Amore / (né l’augurio è lontano) / a tue chiome apprestar serto migliore».

L’autore degli encomiastici versi, nemmeno tanto brutti, si firma nella quarta pagina del libretto,  nella quale apprendiamo che essi furono scritti da Venanz’Antonio can. Belmonte, il quale fece precedere il breve componimento drammatico da poche parole dedicatorie, con cui, rapidamente ricordando i servizi che, prima di diventare cardinale, Ignazio aveva reso al re di Spagna, egli si giura vero e fido vassallo del “l’ornamento miglior del Buoncompagno stemma”. Questo canonico Venanzo Belmonte dei Buoncompagni dovette effettivamente essere un attivissimo sostenitore, tanto che nel 1778 fece dare alle stampe a Napoli un’altra opera drammatica intitolata Enea nel Lazio. Sul frontespizio la si definisce “serenata in occasione della prima venuta a’ suoi Stati dell’Ecc.mo signor principe d. Antonio Buoncompagno”, al quale era dedicata. Antonio Buoncompagni era il fratello maggiore di Ignazio, ed era stato, proprio in quell’anno, investito dello stato di Piombino dal padre Gaetano.

Al cardinale Ignazio Buoncompagni Ludovisi, figlio quartogenito del principe Gaetano Buoncompagni e di sua moglie, la principessa Laura Chigi, destinato, proprio per la sua condizione di ultrogenito, alla carriera ecclesiastica come era tradizione presso la sua famiglia sin dai tempi di papa Gregorio XIII suo antenato, e che ricoprì la carica cardinalizia in quel di Bologna, vennero dedicate diverse opere drammatiche.

Infine, è stato possibile rintracciare tra le carte dell’archivio diocesano un prezioso documento che era in uso presso il monastero di Santa Chiara. Si tratta di un Miserere risalente al 1789, di grande intensità emotiva e drammatica.

Vincenzo Ruggiero Perrino

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