L’abate Domenico Romanelli, autore del bellissimo Viaggio da Napoli a Monte-Casino ed alla celebre cascata d’acqua dell’Isola di Sora (1819), racconta, tra le tante altre cose, anche del teatro e dell’anfiteatro romani di Cassino. Del teatro, egli dice che «vi resta tutto il giro del semicercho di circa 150 palmi di diametro, co’ segni delle gradazioni, delle camere e de’ corridoj laterali […]. La parte della scena è totalmente distrutta, e l’orchestra è ridotta a terreno seminatorio» (p. 39).
L’anfiteatro fu innalzato per opera di Ummidia Quadratilla, come attesta un’iscrizione del I sec. d. C. (rinvenuta nel 1757): Ummidia C.F. Quadratilla anphitheatrum et templum Casinatibus sua pecunia fecit. Costei dovette essere una matrona particolarmente munifica, tanto da occuparsi del restauro del teatro, al quale allude un’altra iscrizione ivi rinvenuta in frammenti, dalla quale si potrebbe ricostruire la notizia che sia stata proprio lei la donna che investì il proprio denaro per mettere a nuovo l’edificio.
Come sappiamo da Plinio il Giovane e da Silio Italico, la città romana di Casinum era luogo di villeggiatura, importante anche perché era situata sulla via Latina che da Roma portava a Capua. Cicerone ci informa nella seconda Filippica che in città fu ospitato anche Marco Antonio (probabilmente fu ospite di Marco Terenzio Varrone), che qui si dedicò principalmente a banchetti e donne. Ma, tra le famiglie più facoltose e in vista di Casinum, c’era sicuramente la gens Ummidia, alla quale apparteneva Quadratilla, munifica matrona, morta ottantenne, estimatrice di mimi e attori vari.
In una sua lettera (VII, 24) Plinio il Giovane dice di aver conosciuto tanto lei, quanto il nipote che ne fu erede. Vale la pena di leggere quel che scrive Plinio nell’epistola che indirizzò al suo amico Geminio: «Ummidia Quadratilla è morta verso gli ottanta anni, prosperosa sino agli ultimi giorni, anzi, diversamente dalle altre matrone, salda di membra e robusta. Fece morendo un bellissimo testamento. Instituì eredi per due terzi il nipote, per 1’altro terzo la nipote. Poco conosco la nipote; ma sono intimo amico del nipote, giovane incomparabile, e degno di essere amato qual congiunto non da quei soli, che tali gli sono di sangue. Soprattutto, essendo bello di aspetto, schivò da ragazzo e da giovane le dicerie dei maligni; si sposò a ventiquattro anni, ma agli dei non piacque che fosse padre. In casa della nonna condusse una vita molto austera. Aveva ella dei pantomimi, e li favoriva in eccesso, più che non conviensi ad un’illustre matrona. Quadrato non li osservava né in teatro né in casa; né essa lo consentiva. Raccomandandomi di istruire suo nipote, io la intesi dire, esser suo costume, in mezzo agli ozii donneschi, di ricrearsi col gioco e di osservare i suoi pantomimi; ma quando era sul fare l’una cosa o l’altra cosa, comandava sempre a suo nipote di andarsene e di studiare; il che mi pare che facesse non meno per amore, che per rispetto di lui. Tu ti maraviglierai, ed io pure me ne sono meravigliato, quando negli ultimi giuochi sacerdotali, entrati in campo i pantomimi, Quadrato mi disse, uscendo insieme di teatro: “Sai tu che oggi per la prima volta ho veduto a ballare il liberto di mia nonna?”. Così il nipote: ma certuni di animo totalmente contrario per fare onore a Quadratilla (mi vergogno di parlare di “onore”) per compacierle con le più vili adulazioni, correvano per tutto il teatro, gridavano, battevano le mani, ammiravano, e si affrettavano per venire a cantare innanzi a lei, e di fare i medesimi gesti, che facevano i buffoni. Per prezzo di questi atteggiamenti sì indegnamente ostentati a teatro, avranno piccolissimi legati da un erede, che non assisteva alle loro scene. Io ti scrivo questo, perché credo che tu possa rallegrarti di queste novità; ma anche perché raccontandoti il mio piacere nell’apprendere queste notizie, lo rinnovo una seconda volta. Mi rallegro, dunque, che Quadratilla abbia reso giustizia ad un ragazzo tanto saggio. Mi rallegro di vedere che la casa di Caio Cassio, fondatore di quella Scuola Cassiana, sia abitata da un padrone che è in tutto a lui simile. Quadrato abiterà questa casa, e la renderà adeguata alla sua reputazione, in tutto il suo splendore e in tutta la sua gloria, poiché dov’era un celebre giurisconsluto si troverà un celebre oratore. Addio».
Ovviamente, anche nell’anfiteatro di Cassino, così come negli anfiteatri di tutto l’impero romano, si svolgevano spettacoli di grande presa sul pubblico, quali cacce alle belve (venationes), esecuzioni capitali di condannati, combattimenti di gladiatori (munera gladiatoria) e battaglie navali (naumachiae), che costituivano un complesso di manifestazioni molto eterogeneo, che andava al di là della sfera teatrale strattamente intesa e includeva, con tutta evidenza, anche una componente agonistica. In queste performance, sulla crudezza del dettaglio realistico (il sangue e, più raramente di quanto si creda, la morte), si innesta con crescente riconoscibilità una marcata teatralizzazione. Non a caso, chi combatteva nell’arena doveva vestire panni di eroi mitologici, andando a creare una sorta di iperrealismo in cui si connettevano l’istanza agonistica (un vero combattimento dall’esito non predeterminato), e l’istanza teatrale (che rinvia ad una logica di simulazione). Proprio la marcata teatralizzazione dei munera gladiatoria andò rapidamente ad intaccare il grado di sacralità rituale e il carattere religioso che erano una cifra importante dei giochi antichi.
Il teatro di Cassino è un tipico esempio di teatro ellenistico, con la cavea che poggia sul declivio del monte, e la gradinata semicircolare che scende fino all’orchestra, a ridosso della quale si alza la scaena. Scrive il Polidoro (Cassino, un giorno il teatro, 1980, pp. 23 e ss.): «Per facilitare l’ingresso e la circolazione degli spettatori la cavea era percorsa verticalmente da cinque scale e, orizzontalmente, dau n passaggio (praecinctio) che la divideva in due sezioni (maeniana) […]. Si vede uno spesso muro che è quanto resta di una galleria a volta (crypta) che doveva sorregere un’altra serie di gradinate e che presentava, al centro, un piccolo tempietto (sacellum)».
È presumibile che nell’orchestra vi fossero i seggi per le persone di riguardo. Cavea e orchestra sono satte restaurate e completamente ricostruite. Della scena invece resta il muro perimetrale che costituiva il supporto del palcoscenico ligneo e sorreggeva la struttura della scena vera e propria di ogni spettacolo (la cosiddetta scaenae frons).
Purtroppo non tutto quello che fu rinvenuto nella campagna di scavi condotta dal prof. Maiuri è ancora oggi visibile. Infatti, dai resoconti degli archeologi che lavorarono al recupero del teatro cassinate sappiamo che essi avevano ritrovato lastre di marmo colorato che costituivano il pavimento dell’orchestra, e addirittura numerosi pezzi di intonaco, che decoravano il teatro con uno stile decorativo pompeiano. Queste note hanno ovviamente fatto ipotizzare che tutto il teatro doveva essere particolarmente curato, com’era consuetudine per gli edifici pubblici di età augustea.
Che il teatro sia stato presumibilmente edificato negli anni di Augusto (o al più tardi in età giulio-claudia) è attestato non solo dalla foggia del teatro, ma anche da un’epigrafe (mutila) che era stata ritrovata e da una testa scultorea, che sono riconducibili a due nipoti di Augusto, Lucio e Gaio. Dunque: costruito più o meno in epoca augustea, il teatro, dopo circa un sessantennio dalla sua costruzione, doveva già avere bisogno di un maquillage architettonico (segno che esso doveva essere particolarmente frequentato), del quale si incaricò la munifica Quadratilla.
Ma cosa andavano a vedere i cassinati di duemila e passa anni fa nel loro teatro romano? All’epoca, la tragedia e la commedia classica circolavano solo in ambienti ristretti e colti, molto probabilmente nemmeno nella forma di messinscena, bensì in quella di letture di brani. Sappiamo da Marziale e da Plinio che la normale destinazione di una tragedia era solo la lettura scolastica e non la rappresentazione scenica.
L’unica forma di esecuzione parateatrale, destinata comunque ad un pubblico colto, era la declamazione di singole scene ad opera di un tragicus cantor. Si trattava di qualcosa di simile ad un moderno recital, in cui un attore o un cantante eseguiva, senza un particolare apparato scenico, i pezzi più popolari del suo repertorio. Se i recital erano intesi per assecondare i capricci di un pubblico colto, facendogli ascoltare brani illustri e familiari, un’altra forma di spettacolo, il pantomimo, si proponeva di far rivivere scenicamente e visivamente le trame del teatro antico. In questo genere di rappresentazione, affidata di regola ad un solo interprete (affiancato da un coro che narrava la storia), che sosteneva diverse parti indossando la maschera ed esprimendosi con movimenti del corpo e delle mani accompagnati dalla musica, i soggetti erano spesso presi da quelli del repertorio tragico (ma esisteva anche un pantomimo comico-satirico). Infatti, si usava l’espressione saltare tragoediam, per designare quel particolare modo di far rivivere, senza parole, le storie dei grandi personaggi del teatro tragico, per lo più di ascendenza mitologica. Possiamo ben dire che, dopo il tramonto letterario e scenico della tragedia, sarà proprio il pantomimo a tener viva la conoscenza del patrimonio di miti e leggende tradizionali.
Anche la commedia continua ad essere amata e conosciuta soltanto attraverso la sua forma letteraria: le commedie vengono ascoltate leggere, mentre ciò che si va a vedere sono i mimi. Nelle Quaestiones conviviales Plutarco traccia un quadro delle strutture prevalenti dei mimi: «Ci sono dei mimi, alcuni dei quali sono chiamati hypotheseis e altri paigna». Le hypotheseis erano mimi che abbisognavano di un’adeguata scenografia ed avevano un’articolata lunghezza narrativa (tanto da richiedere l’impiego di più attori e talvolta anche di un coro); i paigna hanno decisamente dimensioni minori e possono essere rappresentati un po’ ovunque (con un solo attore, il quale, modificando la propria voce, interpretava tutti i personaggi).
Simili al mimo (ma con caratteristiche formali alquanto peculiari), almeno per modalità di fruizione e impatto sul pubblico, c’erano altri tipi di spettacoli di minore importanza, come l’atellana, un antico genere di origine osca, che continuò ad avere successo anche in età augustea. L’atellana era una farsa popolare improvvisata di tono satirico; mista di versi e di prosa condita di termini rustici, impiegava maschere fisse, i cui nomi sono Dossennus, Maccus, Buccus, Manducus, Pappus (talvolta compariva anche una maschera con l’aspetto di animale, Kikinus, il cui nome richiamava il verso del gallo).
In teatro si potevano vedere anche le esibizioni di giocolieri e funamboli, benché la loro fosse una spettacolarità di strada.
Vi era pure un altro genere: il tetimimo, che erano spettacoli coreografici acquatici. Nell’orchestra dei teatri si ricavava un bacino chiuso alimentato da condutture idriche. Venivano rappresentati spettacolari mimi con licenziose esibizioni di nudità femminili. Marziale, nel ventiseiesimo epigramma del De spectaculis, ce ne descrive uno.
Infine, sicuramente nel teatro di Cassino ebbero luogo, come in tutto l’impero ellenizzato, concorsi citarodici, nei quali gli esecutori cantavano brani di vario tipo, anche teatrali, accompagnandosi con la cetra. In tutto il periodo imperiale le citarodie ebbero successo e gli esecutori più bravi vennero acclamati dal pubblico romano. Si diffuse il costume di comporre musiche su brani tratti da tragedie classiche e di cantarli accompagnati dalla cetra.
Vincenzo Ruggiero Perrino