Uno studioso di storia del teatro, il Cruciani, afferma, e noi con lui, che lo spazio del teatro nel Rinascimento è quello della “festa”. La recitazione di commedie e tragedie si inscrive all’interno di un avvenimento festivo, che è l’occasione per uscire dalla quotidianità e collocarsi in un ambito ideale di celebrazione. Vi sono vari tipi di festa: la festa della cultura (quella in cui gli uomini colti «celebrano l’immagine del loro ruolo» ed elaborano le regole di vita), la festa della corte (nella quale «si esaltano il mecenatismo, l’esibizione del lusso e del potere, i rituali del gusto e della cultura, che si concretizzino nella magnificenza»), e la festa “privata” (che si svolge prevalentemente in case private ed è rivolta a gruppi ristretti di spettatori). La festa coincide solitamente celebrazioni religiose, o con il Carnevale, saldandosi ad una tradizione alimentata da credenze popolari, che si trasformano in simbolico sovvertimento delle regole morali e di sfogo di passioni e istinti collettivi.
Durante le feste si allestiscono le prime opere del “nuovo” teatro italiano. Probabilmente, la primissima commedia a vedere il palcoscenico fu il Formicone, scritta da un adolescente per esercitare il proprio ingegno (come viene spiegato nell’Argomento). Fu composta nel 1503 e rappresentata a Mantova dalla scuola di Francesco Vigilio, maestro dello Studio (cioè dell’Università), davanti a Isabella d’Este e alla sua corte. Tuttavia, è il 1508, anno della rappresentazione della Cassaria di Ludovico Ariosto, la data che concordemente gli storici indicano per la nascita della commedia. Bernardo Dovizi da Bibbiena è l’autore di una delle commedie più fortunate di tutto il Cinquecento, la Calandria, rappresentata per la prima volta a Urbino nel 1513. La Mandragola, il testo teatrale più importante di Niccolò Machiavelli, va in scena per la prima volta a Firenze nel 1525. E, ancora, di grande importanza sono le commedie di Pietro Aretino e soprattutto l’anonima Venexiana, frutto isolato di un ambiente culturale fortemente omogeneo quale quello di Venezia. Ma, accanto alle nuove commedie in volgare, nel primo Cinquecento grande popolarità ebbero farse o di brevi dialoghi in dialetto: principale esponente di questa “letteratura popolare” è Angelo Beolco, detto Ruzante, i cui testi vanno dal dialogo breve alla commedia erudita di imitazione classica (anche se sempre scritta e recitata in dialetto).
Le commedie del Rinascimento godono di ampio successo sulla scena, ma, complice la recente invenzione della stampa, si diffondono capillarmente anche nelle edizioni a stampa. Queste commedie vennero dette “regolari”, appunto perché seguirono una regola. Tale regola di tecnica drammaturgica fu quella che venne estrapolata dalla lettura e dal commento della Poetica di Aristotele, della quale Giorgio Valla nel 1498 aveva pubblicato una traduzione latina. Dalla riflessione sull’opera di Aristotele fu formulato il principio delle tre unità: di azione, di tempo e di luogo. L’unità d’azione è quella per cui ogni opera deve comprendere un’azione unica, che sia un tutto coerente e compiuto in se stesso; l’unità di tempo prevede che tutta l’azione si deve svolgere in un lasso cronologico ben determinato e conciso; l’unità di luogo, invece che tutta la storia si svolgesse su un’unica scena e in un unico ambiente. Insomma: un dramma doveva avere un’unica trama, svolgersi in non più di ventiquattro ore ed essere ambientato in un unico luogo.
Quanto alla tragedia, essa tocca allora in Italia uno dei suoi vertici creativi. In realtà, si tratta di un’operazione più interiore che esteriore, non salutata da clamori di pubblico e da successi fortunati, bensì consegnata alla pagina scritta. Nelle tragedie cinquecentesche è evidente un grande formalismo, al limite dell’astrazione, tanto da risultare difficilmente rappresentabile, almeno nei modi invalsi a corte e nelle altre feste cittadine. Tuttavia, nel 1541 a Ferrara viene allestita l’Orbecche di Giovan Battista Giraldi Cintio, il quale era convinto che «la tragedia, o sia di fin lieto o d’infelice, col miserabile e col terribile purga gli animi da’ vizii e gl’induce a’ buoni costumi». La rappresentazione ebbe un apparato sontuoso e una struttura che diventerà, ancora una volta, “regola”: divisione in atti e scene (che permette l’inserimento di intermezzi per dilettare la Corte), il prologo staccato, il coro “mobile” (che cioè non rimane sempre in scena), i cori lirici d’intermezzo, il linguaggio, la metrica.
Da un punto di vista dell’allestimento, questi esperimenti scenici segnano una frattura rispetto all’esperienza medievale. Infatti, se prima era invalso l’uso della scena simultanea, con i diversi luoghi deputati posti l’uno di seguito all’altro in un’unica visione, nel Rinascimento la scena, basata sul principio della prospettiva, ritorna ad essere un’unica immagine. Tale innovazione, attuatasi in Italia all’inizio del Cinquecento e perciò anche detta “scena all’italiana”, è alla base del teatro moderno e prevede la disposizione frontale della rappresentazione su un palcoscenico, che è separato dal pubblico che assiste.
Ma il teatro del Cinquecento non è solo commedie e tragedie. Vi è spazio anche per altri generi, come per esempio il dramma pastorale, nel quale era evidente un’atmosfera di nobiltà letteraria, ma elastica quanto bastava per poter accogliere anche elementi comici, lirici, romanzeschi e farseschi, che potevano risultare graditi ad un pubblico colto. Vi sono anche l’inframessa (che è un ampliamento dialogico di una scena che, pur essendo richiesta dal contesto, non è strettamente necessaria allo svolgimento dell’azione) e gli intermezzi. Il genere dell’intermezzo, sorto nell’ambito del teatro e dello spettacolo profano, risponde principalmente alla necessità di ravvivare nel pubblico l’interesse per l’intreccio della commedia nei momenti di minor tensione, assolvendo a questa funzione con tecniche rappresentative nettamente diversificate da quelle del dramma messo in scena. Proprio gli intermezzi sono alla base della nascita alla fine del Cinquecento e al successo del Seicento, di un nuovo genere teatrale: l’opera lirica (o melodramma).
Infine, il catalogo degli spettacoli cinquecenteschi annovera anche un’altra particolare forma performativa: il balletto. Si tratta di un particolare tipo di rappresentazione coreografica, che nasce a partire dal primo Rinascimento dalle composizioni dei maestri di ballo presso le corti signorili italiane e francesi. Anzi, con l’affermarsi delle signorie in Europa, la danza si trasforma in arte, tanto che il “Maestro di dançare” diviene un’imprescindibile figura professionale al servizio di principi e nobili. Si fissano quattro tipi di musica danzata (la bassadanza, la quaternaria, il saltarello, e la piva), e al contempo nascono i primi balli di coppia. Se nel medioevo, le danze erano semplici, basate su passi ritmici e figure ripetute, eseguite in girotondo o in fila, come le carole e le farandole, dove tutte le persone si prendevano per mano, nel corso del Rinascimento le coreografie divennero ben più complesse, e la stessa composizione di una danza idealmente si legava all’importanza delle buone maniere (tanto che danza, esercizi di scherma, equitazione, erano tutte discipline pensate per esaltare la “leggiadria” dei cavalieri e la “grazia” delle dame).
Il successo del balletto è testimoniato anche dalla circostanza che, dalla metà del XV secolo, appaiono sul mercato editoriale i primi trattati sull’arte della danza, accompagnati da una trasmissione scritta di coreografie, ordinate sulla musica con una vera e propria “intavolatura” di passi. Tra i primi trattati a stampa, quello che qui ci interessa più da vicino è Il Ballarino di Marco Fabrizio Caroso. Questo trattato venne stampato a Venezia nel 1581 e il frontespizio avvertiva che era “un’opera nuovamente mandata in luce”; dopo circa vent’anni, nel 1600, veniva stampato Nobiltà di dame, “libro altra volta chiamato Il Ballarino”, che sarebbe stato in parte ristampato da un libraio a Roma nel 1630, con l’aggiunta di un diverso frontespizio e di una dedica, con il titolo Raccolta di vari balli fatti in occorrenze di nozze e festini da nobili cavalieri e dame di diverse nationi.
I dati biografici di Fabrizio Caroso, desunti per lo più da notizie contenute in edizioni di sue opere, sono frammentari e lacunosi. Scrittore, compositore di musica, coreografo e maestro di ballo, egli nacque verso il 1530 e fu attivo a Sermoneta. Sotto la protezione dei Caetani, fu da loro introdotto a Roma, dove, a giudicare dalle molte sue danze dedicate a nobildonne romane, dovette trascorrere gran parte dei suoi giorni. Proprio le dediche a donne della nobiltà di mezza Europa, attestano la risonanza dell’arte del Caroso come rappresentante della scuola italiana che, con la sua coerenza e unità sistematica, si andava ormai imponendo sulle scuole locali. Non a caso Torquato Tasso celebrò il famoso “professor di Ballare” in un sonetto pubblicato in Nobiltà di Dame. L’opera del Caroso è perfettamente rappresentativa dello spirito della società tardo cinquecentesca, e puntava a emancipare la danza di corte dalla sua pur evidente matrice contadina, esaltando il “concetto di creanza”, senza il quale non vi sarebbe “differenza tra gli allevati nella città e tra le chiare famiglie, da quei che nelle ville e tra gli animali dimorano”.
Il Ballarino è diviso in due parti, di cui la prima tratta della teoria dei passi e delle regole secondo cui bisogna comportarsi al ballo, mentre la seconda, “practica”, riporta le coreografie integrali di varie composizioni, dedicate ciascuna ad una gentildonna con l’intestazione in lode della medesima ed un sonetto encomiastico spesso dello stesso Caroso.
Amor costante, uno dei balli di Caroso riportato ne Il Ballarino, fu dedicato alla duchessa di Sora Costanza Sforza Boncompagni. Esso appare già nella prima edizione del trattato, e quindi probabilmente ebbe luogo a corte tra il 1579 e il 1581. Infatti, Costanza Sforza di Santa Fiora (Sora, 1550 – 1617) fu duchessa di Sora e moglie di Giacomo Boncompagni, marchese di Vignola e duca di Sora dal 1579 alla morte, interessandosi attivamente dei territori amministrati dal marito. Risiedendo presso Isola di Sora (l’odierna Isola del Liri), abbellì il castello ducale con la realizzazione di un parco e commissionando una galleria interna di pregevoli stucchi raffiguranti con bassorilievi le città del ducato di Sora. Dedita ad incentivare le arti e la cultura, istituì nel 1614 uno dei primi collegi gesuitici dell’attuale provincia di Frosinone, il cui edificio oggi ospita la sede del municipio. Fece edificare per i gesuiti anche la chiesa di Santo Spirito, nell’omonima piazza a Sora.
Il sonetto di dedica di Amor costante recita così:
ALL’ILLUSTRISSIMA ET ECCELL.MA SIG. COSTANZA SFORZA BUONCOMPAGNI DUCHESSA DI SORA.
Ecco Costanza Sforza, ecco le rare
Vostre virtù divine, alte ne i Cori
Passano accese d’immortali ardori,
E serban sempre Vostre fiamme chiare;
Ben può l’avaro tempo consumare
Il ferro, e l’opre de’ più gran Scultori;
Ma non può già de’ Vostri eterni honori
La Gloria viva estinguer’, ò mancare.
Beata dunque, che schernite l’ira
Del Tempo; e Lethe non può torre al Vostro
Nome, quel grado, che più quà giù s’ama,
Sì, ch’ei non s’alzi, ove con lodi aspira
Per quel sentiero, che virtù l’hà mostro
à far’ eterna la sua chiara Fama.
L’Amor costante è un balletto per una coppia. Infatti, all’inizio l’uomo e la donna si vengono incontro, ma senza prendersi per mano (“come si ha nel presente disegno”) e insieme faranno “graziosamente” la riverenza grave con due “continenze”. Di qui seguono una serie di passi che pur svolgendosi in forma simmetrica da parte dell’uomo e della donna, vengono però eseguiti autonomamente dai due danzatori. Il secondo tempo inizia con i due che passeggiando fanno due “puntate” e quattro “seguiti” a destra; poi, eseguono altri passi verso sinistra. Insomma, nel secondo tempo il balletto assume un andamento più vivace. Nel terzo tempo, “pigliandosi la fe’ destra, si fanno due passi, e un seguito al fianco sinistro, principiandoli col pié sinistro, poi lasciandosi, si volteranno insieme, e faranno due altri passi, e un seguito col pié destro, cambiando luogo”. Nel quarto tempo, dopo altre evoluzioni, Caroso accenna al fatto che i due danzatori debbano eseguire i passi di un ballo chiamato il “contrappasso”, cioè alternando un passo col piede destro verso sinistra e uno col sinistro verso destra. Il ballo si conclude, con la sciolta della Sonata, nella quale finalmente l’uomo e la donna si prendono per le braccia, in un vorticare di movimenti. Nuovamente si esegue il “contrappasso”, dopo di che “la Dama farà le sopraddette volte del Ballo del Contrappasso, e l’huomo farà due seguiti fiancheggiati in dietro, e altri due innanzi, pigliando la Dama per la man ordinaria e poi posandola ove più gli tornerà commodo, e facendosi insieme la riverenza, finiranno il ballo”.
La danza, com’è evidente, fa tutt’uno con la musica. Infatti, non meno importante dovette essere la passione per il canto dei duchi sorani. Tant’è che a Giacomo Boncompagni è legato anche il nome di Giovan Battista Bovicelli. Costui fu uno dei più antichi teorici del canto. Nacque ad Assisi intorno al 1550 e fu cantore nel duomo di Milano tra il 1583 e il 1597. Di lui fu pubblicata a Venezia, nel 1594, una raccolta di Regole, Passaggi di musica, Madrigali, che nella larga esemplificazione di fioriture, trilli, passaggi, si può considerare un vero e proprio metodo di canto. La dedica del libro a Giacomo Boncompagni, al pari della dedica del balletto Amor costante alla duchessa, attesta indirettamente quale importante ruolo giocava la cultura nel governo e nella vita del ducato di Sora sul finire del Cinquecento.
Vincenzo Ruggiero Perrino